Rivista di luoghi, storie e altro

Le Marane

In un paese dell’Abruzzo il cui nome non voglio ricordare c’era una frazione. Per raggiungerla, varcata la porta a oriente, dopo il ponticello sul fiume, una curva in salita e una croce, ci si incamminava su una strada di campagna. Oltrepassato il cancello di un casale, inoltrandosi nei campi il viandante raccoglieva un bastone. Di giorno lo suggerivano le malelingue e l’agitarsi delle fronde, di notte il balenare di sagome, l’ululare dei cani. Allora, se la propria ombra tremava, il viandante scorgeva, anche in assenza di vento, oscillare lampade appese a pali sporadicamente piantati lungo il cammino. Ma non di rado il vento invece c’era: gli soffiava alle spalle impolverandogli la blusa, quasi strappandogli di mano il bastone, sospingendolo verso la parete del Monte Morrone finché il perimetro della vallata non lo costringeva a svoltare. La strada allora prendeva a salire longitudinalmente, ma lateralmente a scendere: faticosi erano l’incedere e farlo in linea retta. Da diseguale distanza, a seconda che della via si fosse riusciti a mantenersi sul ciglio o se cedendo alla deriva se ne percorresse il centro, si intravedeva allora un cartello corroso dalla ruggine; e malgrado questa, il nome della frazione. Dove, dunque, non si giungeva per caso. L’occhiata di sbieco di un gallo, il prorompere dei tuoni, il cigolare delle imposte, il fumo su qualche comignolo d’inverno o l’insistere delle cicale d’estate non potevano pertanto che avere un tono interrogativo.

Foto © Marina Cantamutto

Era senza una risposta che, dopo una curva che non schivava nulla, il viandante s’imbatteva nel Palazzo. Residenza, a giudicare dalle casupole circostanti, di chi dovette essere stato padrone del contado e di chi lo lavorava. Risaliva forse a quando un sant’uomo, poi Papa, poi carcerato, piuttosto che alloggiare da quelle parti aveva preferito inerpicarsi sulla costa della montagna e farsi eremita. Sui muri di alcune case si aprivano delle feritoie; da lì i briganti dovettero un tempo prendere di mira gli invasori. O attenderli invano, illudendosi che la loro plaga fosse contesa. Pare si appostassero dietro il granaio, all’incirca tra l’albero di melograno e la porcilaia, a sud dei panunt e a est delle vicenn, latitudini risapute dai locali, ovvie quanto i loro soprannomi. Più oltre, di fronte a un abbeveratoio dove gli uomini se pioveva si ritrovavano a ricavare presagi per il raccolto, sulla scarpata tra la strada e la montagna un’erta conduceva a una chiesa. Bianca, dominante: un’arca. Al posto dell’Ararat, riscendendo sulla strada, ma a sinistra, c’era Lu briit. Quasi un torrente a secco che tra case costruite lungo l’argine precipitava fino al bosco. Ne provenivano pipistrelli e occhi che palpitavano negli interstizi delle porte, tra i sassi dell’orto, sotto una scalinata diroccata. A metà, nell’ansa in cui certe sere una mano stringeva le zampe delle pecore e l’altra le tosava, si diramava un vicoletto. Lo accecava la casa più in ombra dell’abitato.

Foto © Luca De Feo

Da lì ogni tanto, risalito Lu briit fino alla strada, spuntava, come un germoglio, Za Sè. Sul limitare si affacciava come da un oblò: guardandosi attorno. Alle sue spalle, dopo averne ricevuto uno spicchio di mela, mezza pannocchia, una manciata di noci, può darsi che scapicollandosi certi ragazzini collaudassero i freni di qualche carretto. Dall’altro lato della strada il canale d’irrigazione dei campi – chiamato col nome di ciò che conferiva all’acqua: Forma – levigava abbastanza le pietre da poterci strofinare i panni. Gli schizzi se li spartivano le due parti della frazione. La Palazzo, di qua, e giusto al di là della Forma, Le Case Nuove, a partire da un declivio in corrispondenza della deviazione dalla strada che, anche moralmente, per quelli del Palazzo restava la maestra. Aperti e molesti come le vocali della loro versione del dialetto, erano, ai loro occhi e orecchie, quelli delle Case Nuove. Alcune avevano l’intonaco, figurarsi. Ma, come osservò una volta il muratore, non erano che questioni di facciata, appunto. Di quelli non c’era di fidarsi. Guai a dare in sposa la propria figlia a uno di quelli delle Case Nuove. E peggio ancora dare a una di quelle (di quelle delle Case nuove) il proprio figlio: col rischio di dover celebrare la funzione nella loro chiesetta, alla fine della stradina, intitolata, senza senso della misura, alla madonna, addirittura. Uno sproposito, in confronto alla chiesa di quelli del Palazzo, vigilata dal di lei consorte, per la festa del quale il comitato ogni anno trovava il modo di mettere su un gruzzoletto e riuscire a far venire quel cantante che una volta anche alla radio s’era sentito nominare. Del resto con don Emidio, che durante il suo rito preconciliare sogguardava i fedeli per controllarne la spartizione tra maschi (nei banchi di destra) e femmine (in quelli di sinistra), c’era poco da fare i tirchi. Dovunque si tenessero, a ogni modo, i matrimoni misti, rari, praticamente incroci etnici, suscitavano interrogativi sulla deriva dei costumi.

Foto © Luca De Feo

Dove invece le due popolazioni si incontravano era, una volta a settimana, al forno. Una baracca all’inizio delle Case Nuove, dove le donne del Palazzo, percorrendo una cinquantina di passi, si addentravano in delegazione. La maggior parte vestite di nero per lutti ventennali, qualcuna armata di mattarello, le altre per lo più in pace, avanzano sormontate da pagnotte, che i fazzoletti annodati sotto il mento ammortizzavano. Se la farina era bastata anche le pizze ci scappavano, che dal forno qualche ora dopo sortivano in processione coprendo col loro profumo il puzzo dei campi. Ora quell’odore s’è dissolto. I concimi chimici non sanno di niente. Ognuno di forno ha il proprio, in giardino, e comunque una capricciosa la si può anche ordinare e far arrivare a casa. L’inizio della fine coincise col ritorno degli emigranti. Qualcuno di coloro che erano andati a cercare fortuna oltreoceano l’aveva trovata. Lo suggeriva la messa in piega, lo ostentavano la parlata e i vestiti a fiori. Villette in stile australiano comparvero non solo lungo la strada, ma anche sulle pendici della montagna. I loro cancelli automatici, nani e antenne affiancarono la chiesa. Nello stesso periodo il telefono, un tempo appannaggio di un baretto, si diffuse in ogni casa. Giusto qualche anno dopo che i bagni, escrescenze cubiche in corrispondenza di vecchie finestre, soppiantassero le stalle.

Foto © Marina Cantamutto

Già da alcuni anni, invece, dall’abbeveratoio era stata ricavata una fontanella. Di fronte, un manifesto strappato sventagliava un detersivo. Uno uguale, pari pari, spuntò poco dopo dal secchio dell’immondizia, appena installato e già orgoglio locale, segno – ora che c’era qualcosa da scartare – di progresso. Perché nel frattempo i quattrini non li avevano fatti solo quelli che erano tornati da chissà dove: in paese avevano aperto delle fabbriche. Una zona aveva cambiato nome e adesso si chiamava “Industriale”. Dai balconi, insieme a mollette non più di legno, si sfoggiavano tute blu. Per la frazione fu l’emancipazione. Specialmente dalle trattative per l’annuale vendita dell’aglio rosso, che uno di fuori prima di rivendere in città come specialità acconsentiva a comprare all’ingrosso a seguito di suppliche, paventando ribassi ulteriori. La polvere della strada finì sotto il catrame, su cui risaltava il colore delle utilitarie. Muggiti, guaiti, preghiere, ragli, grugniti, promesse e maledizioni furono sostituiti dai versi di lavatrici, frullatori, aspirapolveri, sigle televisive e poi dal silenzio, ora che riservatezza e aria condizionata ingiungono di chiudere le finestre, ché non serve a niente uscire. Eppure, volendo, il paese è a pochi minuti: oltre la tangenziale. La frazione, raggiunta dai palazzoni della periferia del paese, ne è indistinguibile. Come la lingua dell’intera vallata. Ai soprannomi si sono sostituiti nomi pieni di k e di y. Di matrimoni se ne celebrano sempre meno. Toccano a un prete nuovo, venuto al posto di don Emidio buon’anima, dall’Africa, addirittura. Del resto ultimamente nevica di rado, e la Forma è a secco. Scarseggiano pure, nelle conversazioni, i riferimenti alla festa del santo patrono. Il tetto del forno ha ceduto e dentro crescono rovi. Chissà dove, a quest’ora, Za Sè attende l’arrivo del viandante.

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