Rivista di luoghi, storie e altro

Autobiografia di un lago

Il lago Omodeo (22 km²) è un lago artificiale della Sardegna creato nel 1923 sbarrando il fiume Tirso con la diga di S. Chiara. All’epoca della sua costruzione era il più grande lago artificiale d’Europa. Prende il nome dal suo ideatore, l’ingegnere Angelo Omodeo.

1923. Stavano per farmi nascere. Stavo per riempire una valle feconda. Io acqua e zucchero. Io nella pancia dell’isola, dentro il Mediterraneo, fuori dal mondo. Io, lago. Sono stato concepito dalla materia grigia umana: ero utopia e sono diventato fluido vitale. Al mio posto c’era una chiesa, anzi due. Una l’ho riempita di tutto il mio liquido, sommergendo fede e muri sacri. L’altra è risorta. L’hanno salvata con lo stesso amore di Ernest per il mare: placido, denso, raro. Un numero, un mattone. Un numero, un mattone. Un numero, un mattone. Una matematica della religione per ricostruire con incastri chirurgici quella casa di Dio, riapparsa identica a quella che io avrei travolto. Era lei, solo qualche chilometro più in alto, oltre la valle, a Zuri.

Foto © Monica Porcu

1924. Il mio vagito ha scosso le campagne umili, che mi hanno accolto tremanti. Anche se ho invaso il loro tepore, molle e materno; anche se ho stravolto radici, viscere, ricordi. Eppure quelle terre gentili mi hanno voluto bene. Ero un lago senza natura. Un lago nato grande, il più grande d’Europa. Ma ancora immerso nel suo liquido amniotico. Come un sogno sbiadito che da svegli tarda a perdere forma, dopo il sonno vellutato. Ero fiume e divento un fluido tondo e dolce che copre raccolti ed esistenze. Ero solo Tirso, divento anche Omodeo. 

Foto © Monica Porcu

1950. Nasco per bonificare una pianura lontana. Per educare quello che ero, un fiume anarchico. Per generare luce e caldo con la mia acqua celeste. Divento una pozza onirica, quasi sacra: mi adagiavano sopra barche vergini, un prete le benediceva, fanciulle settenni le battezzavano. Venivano da me le ragazze: equilibriste di un circo rurale tenevano poggiati sulla testa contenitori di paglia intrecciata, pieni di lenzuola di lino candido. E stringevano i manici ghiacciati di recipienti di rame che custodivano cenere tiepida. Era un rituale intimo di fatica e purezza: preparavano un fuoco leggero sulle mie rive, facevano bollire la mia acqua con la polvere antracite portata da casa e poi ci immergevano i panni. Ero sano e vigoroso: generavo un sapone senza bolle, senza schiuma, senza chimica.

Foto © Monica Porcu

1964. All’improvviso l’onda. Il mio ego ovattato ha iniziato a urlare, le mie viscere si sono attorcigliate e un mare di acqua senza sale mi è entrato dentro. Nessuno mi ha mai spiegato perché. Ma quella massa liquida di orrore e fango mi ha cambiato il midollo. Vomitavo melma, remi, barche, reti, pietre, fauna, ferro. La forza del mostro senza nome ha sradicato il ponte di ferro, quello antico, costruito al tempo dei Romani, che io sfioravo come la brezza di giugno fa con le spighe d’oro. Eppure quel dramma mi ha iniettato un vigore placido: mi sono riempito di nuove specie, pesci che non avevo mai posseduto prima hanno popolato il mio fondale, le perdite della mia gente si sono trasformate in una geografia lacustre. Le carpe, gonfie sino a 20 chili, erano una benedizione arrivata da un Dio sotterraneo.

Foto © Monica Porcu

1983. L’erba giallo spento. Lo scenario arido. L’aria apocalittica. I miei bordi secchi, il sole fisso, la mia linfa prosciugata. Era arrivata la grande siccità. Mi sono ridotto a un filo sciolto. Intorno a me una terra stanca e sconsolata. Fratture, fessure, ferite creavano piccole celle di polvere e silenzio. Un paesaggio screpolato, un archivio di fossili affiorati dal basso, una collezione di alberi pietrificati fino ad allora sommersi e tutto a un tratto giganti alieni, essenza di un riscaldamento allarmante. Appassisco. Evaporo. Sprofondo. Le mie coordinate svaniscono. I miei figli restano senza respiro. La mia pelle si sfalda. Inerme, spossato, solo.

Foto © Monica Porcu

2023. Il caldo è sempre più caldo. Mi riempio di alghe che proliferano senza controllo: le temperature alte sono una terapia infallibile per fecondare le cellule verdastre di un ecosistema impazzito. La plastica è sempre più plastica. Ogni tanto divento luogo di abbandono: bottiglie, condom, persino scaldabagni. Voglio riavere i miei spazi. Fatico. La schiuma è sempre più schiuma. Mi sono coperto di una neve bianca, soffice, quasi bella. Ma non pare immacolata. Mi hanno fatto delle analisi. Dicono che non sono velenoso, che le fabbriche vicine non mi hanno fatto del male. Però lo so, sto mutando. La mia genetica traballa,  come un trampolino per i tuffi. E la mia epidermide è uno specchio opaco. Ho bisogno d’aiuto per brillare di nuovo.

Condividi