Rivista di luoghi, storie e altro

Via Cumiana 34 (una lunga frase)

A Mastro Limitri, a mia madre

via Cumiana 34, quando ci sono davanti è come se io non fossi io più, ma fossi qualcuno che avrei potuto essere, che non sono diventato, neppure concepito, sfornato dal grembo di mia madre… via Cumiana 34, nel quartiere borgo San Paolo, 1972, prima che io nascessi, prima anche di essere un pensiero di quella donna giovane, forse al massimo un vago sogno, simile a quando s’immagina una vita diversa, un lavoro, una casa con i fiori, i gerani esposti alle finestre, le passeggiate la domenica con il sole, bersi la cioccolata calda quando è inverno; un sogno innocuo, neppure quello ero in via Cumiana 34, non ero perché non c’ero, e ora che guardo il portone, nel momento in cui lo guardo e penso che scriverò queste cose, il portone si apre e sento la voce di mia madre, la voce di allora, raccontare «Il cortile era con le case di ringhiera, i bagni stavano al fondo dei ballatoi, tuo nonno sale con me dietro, tutto era impestato da un odore di stufato di pecora, di cipolla, di cavolfiore fatto bollire a lungo, una puzza, più che un profumo»; «Venite qui c’è u travaddiu, li sordi», così aveva detto al telefono Sebastiano a mio nonno, «mastru Limitri vunite ca, che c’è a casa per vuautri e a vostra famiddia»; e nonno decide di salire da Reggio Calabria, perché lavorare a cottimo e tirare su le scale è pesante, e forse anche nonno Demetrio (ci chiamiamo allo stesso modo) ha nella testa un’idea di vita diversa, meno faticosa, più quieta, chissà cosa pensa, che immagine ha della felicità, ora mentre con mia madre, che è la maggiore, attraversa le porte di questo appartamento pieno di odori stantii: di sicuro hanno fatto le cose per bene, vengono per restare, questo è stato deciso (insomma sono gli anni Settanta e quando ti capita mai un lavoro e una casa al Nord, nella città della auto e dell’industria!), hanno le valige piene di vestiti, hanno i capotti, e pure la caffettiera con loro; siamo ad agosto, quando varcano la porta e sentono la puzza… di chiuso, dice mia madre, di vecchio, con lo stufato a cuocere, era caldo, afoso, ogni finestra serrata nella casa; mio nonno guarda, non sa cosa dire e tace, ecco mi mancano quei suoi lunghi silenzi e, ora, questa lunga lunga lunga frase è un sacramento per tenere vivo mio nonno, che è morto, marzo 2016, e sono sceso giù per dirgli Ciao, e così quella volta in aereo, mia madre era affranta vicino a me, così le ho detto di raccontarmi di via Cumiana, perché quando lo racconta ride, via-cumiana-trentaquattro è la nostra piccola epica, ogni famiglia ha la propria, un condensato dei caratteri tipici della famiglia (il nostro daimon è il rifiuto), che come tale possiede un suo inizio – Diobuono dovrei ricordarmi il galateo del racconto, le cose secondo logica, mai dal mezzo! –, il nostro incipit è comunque una “roba” umile e alla buona, niente invocazioni alle muse, niente protasi, solo mia madre e nonno, scesi dal Reggio Calabria-Torino e fermi a Porta Nuova nel giorno di ferragosto del millenovecentosettandadue: hanno una foto della persona che dovrebbero incontrare e un indirizzo, ma chi avrebbe dovuto aspettarli al binario non c’è, non c’è neppure fuori dalla stazione, neppure in piazza Carlo Felice; Torino è metafisica, i profili dei palazzi sono disegnati a piombo e tagliano il cielo, l’azzurro sereno è un’eco tra le vie lunghe e vuote con nessuno intorno; «Sembrava un film, racconta mamma, dove c’è stata una malattia terribile e sono tutti morti o chiusi in casa» – mi ricordo 2020 nei giorni della chiusura totale sono passato con la bici proprio in via Cumiana 34, e per una frazione di secondo ho avvertito la totale estraneità, vissuta da loro due rispetto alla città, e dalla città verso di loro, come se nulla fosse cambiato da allora: la luce, le serrande dei pochi negozi tirate giù, un presentimento di catastrofe nelle pochissime persone in giro, il silenzio irreale nella irreale città – in tale stupefatta solitudine nonno non sa cosa fare, potrebbero aspettare, oppure andare hanno l’indirizzo; fa caldo, il viaggio è stato lungo, così decidono di raggiungere la casa, nonno si avvicina a una persona per chiedere che bus o tram prendere, l’uomo è gentile, immagino che nonno si sforzi di parlare in italiano – mia madre, ad esempio, non parla dialetto calabrese, ha una leggera inflessione che le fiorisce in certi momenti, quando parla al telefono con qualcuno di giù o negli sbocchi di gioia o dolore grandi, ecco il suo è un italiano arrotondato dalla pronuncia del sud –, mio nonno possiede un dialetto spesso smozzicato, tagliato a mezzo, mescolato con l’italiano e quindi io lo vedo, la camicia sudata, i pantaloni aderenti, i suoi baffi neri curati, chiedere informazioni (ora il portone di via Cumiana 34 si spalanca e io sono gettato nei Settanta in quella strana cappa di piombo che è stata l’aria in cui venni generato, creato nel piombo, concepito nei proiettili, sgravato nel fumo dei lacrimogeni, vissuto nelle esplosioni dei treni, quel mondo con i bossoli piantati nei muri, stimmate dei luoghi delle uccisioni e delle gambizzazioni, e in questo acre puzzo di fine e di apocalisse io vorrei avere voce e dire Nonno tra poco a Torino sarà l’inferno, treni che saltano, gente uccisa, gambizzata, torna giù, concediti finché puoi l’arcaica bellezza del mare, dei ficarazzi lungo le strade, delle agavi a delimitare i campi di proprietà e il luminoso giallo profumo dei cespugli di ginestre che brillano nei burroni tra i frigo gettati e le immondizie; «Mi potrebbe dire come arrivare a via Cumiana 34?», fa invece mio nonno, e l’uomo inizia a balbettare…, «‘u birbu», dice mia madre, imitando la voce di nonno, birbu dico io davanti al numero trentaquattro di via Cumiana, consapevole che nonno ignorasse come il balbuziente, per eccellenza, fosse Mosè, colui che guida il popolo verso la terra promessa; e lì nel deserto assolato della mattina agostana, nel caldo tremendo di Torino, con l’asfalto che brucia, questo Mosè indica loro la strada, con fatica, con vaticini, con parole stentate; e intanto mia madre, quando dice u birbu, ride, perché rivede suo padre ripetere «Nenti, capiscia nenti» durante il viaggio in tram (hanno preso il 15), infine sono davanti al portone, poi suonano, ‘u cumpare apre e eccoli dove li avevamo lasciati nella stanza chiusa, nel puzzo dello stufato di capra, nell’odore acido di sudore, nella mancanza di respiro; adesso, oggi, io sono qui davanti a via Cumiana 34 e ora le case di ringhiera sono case prestigiose, il piccolo ballatoio, l’illusione della comunità, il mito di Gipo Farassino, qui ci vivono gli architetti appassionati di recupero urbano, le psicanaliste lacaniane, uomini e donne impegnati nel terzo settore, nella cooperazione, seguaci della new age, del commercio equo e sostenibile, che fanno feste condominiali, in cui si fanno libere offerte a favore del popolo palestinese, insomma sono tutti casa, chiesa e kefiah, votano a sinistra, sono ironici, colti, vanno a teatro, ascoltano musica, leggono i libri giusti, uomini e donne di buona volontà e con i cessi dentro casa, mentre allora Sebastiano mostra a nonno e mamma la casa e il cesso fuori sul ballatoio, e io ho la certezza che il nonno, in quell’esatto momento, abbia pensato alla piccola ma onesta casa del Gebbione, con il suo bagno dentro, le mura spesse, i balconi che danno sui viali, e a poca distanza la Capannina, la spiaggia dove andava a pescare; lui – da vero calabrese (essendo uomo di montagna) – non sapeva nuotare, e passava i suoi giorni a fare la cosa che gli veniva meglio: stare zitto, sperando che i pesci non abboccassero (era gentile nonno con ogni forma di essere vivente); ora mentre la mano di Sebastiano indica la porta del cesso, nonno vede la luce intensa che riempie il Gebbione, la calma e la solitudine, vede il mare luccicare lontano; ecco mi piacerebbe pensare al nonno, come Ulisse, che pensa alla casa lontana, alla sua personale-Itaca, ma so che nonno era schifiltoso e che il cesso fuori sul ballatoio non fa per lui, e insomma che era meglio una vita di fatica e stenti al sud ma con il proprio cesso in casa, che stare al Nord fingendo di fare i signori per poi dover cagare e pisciare all’aperto come le bestie al pascolo; per me nonno mio è la dignità, la povertà nella dignità, dell’essere in ordine con la propria coscienza, Sono rimasto povero, direbbe mio nonno, per seguire il mio Dio: il Dio di mio nonno era la dignità, una casa pulita e illuminata; bene, dicevamo, mentre nonno era alla prese con tale ruminio di pensieri mia madre lo anticipa Se volete state voi qua, io me ne vado, e si muove verso la porta e mio nonno allarga le braccia; Sebastiano la guarda ‘na fimmina, pensa, come osa, na fimmina; ma nonno dice «Compari vuriti me fiddia è incerta», e intanto guarda il cesso, guarda le stanze della casa, «Ci pigghiamu du iorna e decidumu», conclude il nonno, stringendo la mano del compare; così escono da via Cumiana 34 e tornano alla stazione, ma non tornano giù a Reggio, si prendono qualche giorno per andare a salutare un parente che vive in un piccolo paese del Monferrato; nonno arriva e racconta, teme mio nonno che le erinni si scatenino su di lui (u travaddiu, a casa, famidia, i soldi du Nord), la più erinni di tutte sarà mia nonna, ma è fatta («camu a spartiri con chiuddu fetusu», sussurra mio nonno al parente che li ospita), così per far sbollire la tremenda raggia di nonna rifiatano tra le colline al fresco dei prati; qualche giorno dopo mia madre entra in un negozio per comprare una lampadina, al banco c’è un uomo, quell’uomo è mio padre, anzi quell’uomo sarà mio padre e, concretamente, solo in quel momento quella donna sarà mia madre: essi si vedono, e si piacciono: io nasco prima ancora che nel seme e nel sangue, in quell’idea di qualcosa che smuove entrambi nell’agosto assolato del Monferrato… una saracinesca che viene tirata su, e sono in via Cumiana 34, oggi, mattina, e le attività commerciali aprono, la saracinesca è quella de La Clinica del rasoio, così mi guardo intorno, osservo quella che avrebbe potuto essere la strada dove mia madre, se avesse deciso di rimanerci, avrebbe potuto vivere, la strada dove io pure avrei infine abitato, e ora forse sarei venuto spesso a farle una visita: c’è un negozio di tappeti persiani, un negozio che vende macchine radiocomandate, con un cane enorme a guardia, un minimarket, che tutti chiamano i bangla, perché gestiti da immigrati dal Bangladesh, un karaoke che apre alle 23 (ci sarei mai andato?), un locale in cui si aggiustano le bici e si mangia qualcosa, dove sono finiti i vecchi ometti di un tempo?, che t’accoglievano scortesi o senza rivolgerti parola, ma ti aggiustavano le camere d’aria, che ti mettevano a posto i freni, o le corna della bici, con le loro mani rugose e segnate dal grasso in pochi minuti?, perché al loro posto ci sono questi giovani con barbe curatissime, hypster milanesi trapiantati, mani pulite e molto cortesi e ti chiedono Vuoi qualcosa da bere, No, dici tu, voglio solo che mi metti in ordine la bici, poi più in fondo verso il civico 15 un edificio recuperato e ristrutturato, sede di associazioni, mi immagino i mercatini equosolidali per Natale, o corsi di chitarra, di skate, uffici per il coworking, limpida architettura di buoni sentimenti contro lo spaccio contro il degrado per tenere in vita una via, che a me pare voglia invece con ogni singola particella dimenticare sé stessa, che postula l’oblio; una via abitata, stranieri&italiani, che vive nella indecisione perenne tra l’essere qualcosa di nuovo e continuare a esistere come un rottame del passato; in tutto questo avviene, come in una visione, mentre io sto appoggiato alla mia bici, penso che io potrei essere mai me, se mio nonno non fosse salito con mia madre, se mia madre non fosse stata decisa a dire no e mio nonno uguale; sarei mica qui se la lampadina della abat-jour non si fosse fulminata e mio padre non fosse stato lì a servire al banco; e così, mentre sto per andarmene da qui, mi chiedo cosa sarei se non fossi stato o se non fossi stato ciò che sono ora qui: immagino in un lampo mia madre che vive in via Cumiana 34, io sarei stato diverso?, sarei stato migliore?, avrei potuto essere un dottore, forse un assassino, forse sarei diventato… ma in fin dei conti cosa cambia?, cosa serve sapere se e come e ma?, siamo il risultato di “cose” più grandi e più piccole di noi, siamo la somma di fattori inesplicabili, io sono venuto al mondo sgravato tra le risa e il pianto come tutti: è di necessità che siamo ciò che siamo, come la vita che è ciò che è a prescindere da questa lunga fila di parole, che ora vanno a concludersi con mio nonno che tornando giù con le valige, i cappotti, la caffettiera, incontra un vecchio conoscente di Reggio Calabria, «Cumpari anche voi tornate», «Sì puru ieu», «Quanto dimuraste ca», nonno guarda le valige, vede l’amico sbirciare le valige, «Puttana ra culonna», sette, dice nonno, «sette iorna dimurai», e infine ride di quel riso dolcissimo, che chiude la storia possibile e apre quella necessaria, dove finisce l’epica e inizia la cronaca, la nostra, e quella di questa via.

Via Cumiana

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Foto © Demetrio Paolin

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