Rivista di luoghi, storie e altro

A un timbro da New York

Questo è un racconto personale, che volevo tenere per me. Ho iniziato a scriverlo camminando, sul telefono. Avevo appena finito di leggere un articolo sull’affaire Djokovic. Non mi interessa il tema del vaccino. Mi interessa, ai fini di questo breve racconto, solo una parte della vicenda. Visto sì, visto no, esenzione all’obbligo vaccinale sì, esenzione dall’obbligo vaccinale no. La pressione mediatica globale fa sì che, dopo l’atterraggio in Australia, il campione serbo venga trattenuto per ore in aeroporto. Sequestrato il telefono, impossibilitato a comunicare con l’esterno. Una sorta di rapimento durato ore. Questo mi ha fatto ricordare le tante volte che sono stato trattenuto alle dogane in giro per il mondo. A volte finisce ridendo, a volte con provocazioni, a volte ti caghi in mano. Anche se sei il numero uno del tennis mondiale. Figurati se sei un Signor Nessuno nato e cresciuto in una periferia della provincia veneta.

Dopo la laurea, nella seconda metà degli anni Duemila, ho avuto la fortuna di abitare per un breve – ma molto intenso – periodo a New York. Bush era presidente, Obama ancora un’idea, Trump solo un tycoon televisivo. Un’altra epoca. Ho ricordi stupendi e volevo portarci la mia fidanzata. Passeggiare di nuovo per le vie di Brooklyn, dove ogni sguardo potrebbe essere l’inquadratura perfetta di un film o di una serie televisiva. I biglietti erano costati poco. Avevo studiato il calendario per andare a vedere un concerto dei Descendents, un musical a Broadway e una partita di hockey al Madison Square Garden. Una vera esperienza americana. Ma non avevo fatto i conti con i 15 anni passati a viaggiare senza timore, ovunque avessi voglia di andare e scoprire. Il mio passaporto era una collezione di visti e timbri. Ne ero orgoglioso, me ne vantavo più che di un orologio prezioso. Peccato che avendo i visti iraniano ed iracheno ero obbligato ad andare al consolato americano di Milano per un permesso ulteriore, un lasciapassare valido dieci anni. Era stato tutto molto semplice: gente cordiale e simpatica, battute divertenti, altre persone nella mia stessa situazione, esperienza veloce ed ordinata. «Perché sei andato due volte in due anni in Iran? Perché hai un visto iracheno? Perché sei entrato da un valico di frontiera e uscito dall’altra parte del paese? Perché sei stato qui, lì o là?». Avevo risposto da professore «perché è un posto bellissimo, pieno di cultura, le piacerebbe». O da affamato: «perché si mangia benissimo». O da hippy-naïve: «amo il mondo e vorrei vederne il più possibile». L’impiegata mi guardava placidamente, sembrava Angela Lansbury de La signora in giallo. Dall’altra parte del plexiglass che ci divideva mi aveva risposto: «dite tutti la stessa cosa, magari è vero». Sorridendo, senza farmi presagire nulla di ciò che sarebbe accaduto al di là dell’oceano.

Foto © Rickmouser45

Stordito da un volo lunghissimo in classe economica, non diretto per risparmiare qualche centinaio di euro, mi metto in coda per l’ingresso. Chi ha l’ESTA, il visto americano che si ottiene rapidamente online in pochi click, entra tranquillo nel paese. Chi ha il mio tipo di visto deve invece fare una coda diversa. Arriva il mio turno. Una giovane agente di frontiera dai tratti latini mi chiede, gioviale e cortese come solo i poliziotti in America sanno essere, perché io abbia il visto di tipo B. Rispondo candidamente che sono stato in Iran, convinto che ormai sia solo una formalità. Il grosso l’ho passato al consolato americano, in coda, facendo lo splendido con una signora sessantenne del Rhode Island innamorata dell’Italia. Ingenuo, il Rizzini. L’agente preme un pulsante speciale e si accende una luce rossa sul gabbiotto della sua postazione. Mi dice di rimanere qui in custodia: dovrò fare un altro controllo. Arriva un big boy con giubbetto antiproiettile, fucile a tracolla e almeno due pistole. Sembra uno SWAT dei film, mi ricorda un Fifty Cents giovane per via dei muscoli strabordanti. Mi chiede di seguirlo, gentile, mentre la collega urla un «neeext» verso la fila di persone in attesa del proprio turno. Gli altri passeggeri mi fissano pensando “chissà cos’ha combinato questo”, mentre io abbasso lo sguardo cercando di non farmi prendere dall’ansia.

Atto secondo: uno stanzone senza vetri alle finestre, una porta blindata a protezione, tre grandi panche di metallo disposte a ferro di cavallo. Nel quarto lato un rialzo con tre desk e tre poliziotti della dogana. Mi fanno accomodare e mi accorgo che a terra ci sono manette e ferri per legare le caviglie al pavimento che avevo visto solo in tv. Non me li mettono, ma non è un buon segno. Tiro fuori lo smartphone per scrivere a mia madre che sono atterrato e alla mia compagna che mi hanno prelevato gli agenti, di aspettarmi agli arrivi. Non ci metterò molto, dico, ho tutti i documenti in regola. Macché. Urlano, «don’t use the phone», e addio comunicazioni ai parenti. Pace, tiro fuori il Kindle per passare il tempo e un altro energumeno accorre urlandomi in faccia «I REPEAT»: non è consentito usare apparecchi elettronici in questa stanza. Peccato che non ho un libro cartaceo, ma spero finisca tutto in fretta. Di fianco a me un ragazzo del Nord Europa legge un vecchio romanzo. Capelli lunghi, look grunge da primo Cobain, un salto nel passato. Ogni tanto ride da solo ad alta voce. Poi un’anziana donna cinese di età indefinibile che non sa l’inglese. Lei, invece, parla da sola. L’ultimo ospite è un ragazzo arabo dal passaporto francese. Primo screening: mi chiedono di raccontare per filo e per segno del mio viaggio negli Stati Uniti. Dopo NYC andremo a Nantucket: ho sempre voluto visitare i luoghi di  Moby Dick. Mostro le prenotazioni stampate da un broker di soggiorni online. L’agente mi ricorda il colombiano Quadrado, un campione juventino dall’imponente capello riccio. Ripeto almeno tre volte la stessa storia. Gli parlo anche in spagnolo. Sono costretto a dirgli tutto dei miei spostamenti. Concerto, partita, musical del Re Leone. Lui annuisce, segna tutto sul computer e mi dice di tornare a sedermi con i miei compagni di sventura.

Foto © Doug Letterman

Passa un’ora. La prima, dico a posteriori. Imparo che se hai bisogno di un interprete, qui te lo trovano in fretta. NYC è una babele e di certo qualcuno che parla la tua lingua si trova. Arriva un inserviente delle pulizie per aiutare la signora che io pensavo “semplicemente” cinese. Evidentemente non parla mandarino standard e hanno difficoltà a trovare qualcuno che conosca il suo cinese. Lo trovano, è un signore di mezza età vestito di arancione. L’arancione di chi al JFK pulisce i bagni, non quello dei carcerati di Guantanamo che temo dovrò indossare anch’io a breve. Non riesco a vedere come va a finire perché vengo chiamato all’interno di altri uffici da un altro detective. Anche lui è latino-americano, dell’Ecuador. Faccio sfoggio del mio spagnolo e diventa ancora più sospettoso. Chiede perché sia così fluent in una lingua non mia. Spiego che in Europa è normale conoscere una lingua straniera oltre all’inglese, che italiano e spagnolo non differiscono di molto e inoltre ho vissuto un anno in Spagna da studente. Peggioro la situazione. Ritorna ancora sul mio itinerario, seguendo un canovaccio – immagino – fornito dal primo colloquio. «Perché Nantucket?». Perché Melville ci ha ambientato Moby Dick, capolavoro della letteratura americana. Il solerte militare dai tratti inca non ha mai sentito parlare di questa balena e s’intestardisce ulteriormente sul perché voglio andare nel Rhode Island per via di un libro. «Devi incontrare qualcuno? Hai amici che ti aspettano? Perché viaggi in autobus e non in macchina?». Il colloquio dura un’ora. La seconda. Non mi sento in pericolo, ma non è semplice rispondere a un interrogatorio che vuole farti ammettere qualcosa a tutti i costi, in un momento in cui sei stremato dal jet lag, dalla stanchezza e dallo spaesamento. Un’altra collega, forse di grado superiore, anche lei latina, sta alle mie spalle e prende nota di tutto al computer. Si sofferma a lungo sui diversi timbri e sui viaggi del passato. Sfoglia il passaporto, pagina dopo pagina, con una lentezza esasperante. Mi si chiudono gli occhi, ho sete e ho fame. Chiede date precise, luoghi di ingresso, cerca di confondermi sbagliando appositamente quanto ho detto nei colloqui precedenti. Sono attento, ho visto troppi film e non voglio finire a Guantanamo. Adesso ha il mio telefono sbloccato in mano. Lo scrigno dei miei segreti, il nostro moderno diario, nelle mani di un estraneo che, in barba a ogni riservatezza, lo maneggia cercando qualcosa di sospetto. Controlla i miei social e si stupisce che non abbia twitter. «Dai, dimmi il tuo nickname», mi chiede più volte. Non riesce a credere che non abbia pubblicato foto dei vari viaggi e mi chiede, dimenticando ogni presunzione d’innocenza: «perché le hai cancellate?». Vuole saperne di più. «Hai parlato con qualcuno? Puoi fornirci i nomi?  Sei stato in hotel o a casa di amici? Ricordi i nomi degli hotel? Hai ancora rapporti via social media con qualcuno dei tuoi incontri?». Prima di rimandarmi di là, mi fa tirar fuori tutto dallo zaino. È la terza volta che lo ispezionano davanti ai miei occhi. 

L’isola di Nantucket (Foto © John Phelan)

Torno in “sala d’aspetto”. La cinese se n’è andata, così come l’arabo-francese che urlando si è giocato la carta del mi tenete qui perché sono musulmano. E nel paese del politicamente corretto non si può rischiare un’accusa del genere. È stato rimpiazzato da altri due giovani dai tratti arabi, anche loro dal passaporto francofono. L’islandese continua a ridere da solo e vorrei farmi consigliare il suo romanzo ma vengo zittito dal «SILENCE!» urlato da un agente con in pugno un manganello che sbatte sulla panchina. Ce l’ha con gli arabi che stanno parlando fitto fra di loro. Alla corte dei miracoli si aggiunge un nuovo ragazzo che non parla inglese. Cerca di spiegarsi parlando in italiano. È un albanese della Lombardia, si è sbagliato nel compilare l’ESTA. Poveraccio, ha segnato la colonna errata in un documento ufficiale. È un chiaro errore ma tant’è, per legge devono trovargli un interprete. Non trovano nessun albanese e quindi provano con l’italiano. Arriva un altro agente di polizia che parla un dialetto proto-italiano difficilissimo da capire. Sembra un calabrese arcaico. Di certo non è l’aiuto linguistico che si aspettava lo sbadato viaggiatore.

Mi richiamano di là, dove hanno trattenuto il mio bagaglio ed il mio telefono, sbloccato. Stavolta il poliziotto esordisce dicendo «Parlami dei tuoi rapporti con Hezbollah». A me, così, di getto. Dopo 24 ore che sono sveglio e quasi tre d’interrogatorio. Mia madre non ha più mie notizie e Federica penserà che sia fuggito. Quasi gli rido istericamente in faccia, scaldandomi. Sono stato in Libano da turista, è normale avere foto delle loro gialle bandiere sul telefono. Sono stremato. Riprendo con il solito mantra: «fate tutto questo interrogatorio infinito solo perché ho avuto l’ardire di visitare alcuni paesi che non sono vietati ma che voi ritenete nemici. Nemici perché musulmani». Ha un sussulto sulla sedia. La ramanzina sul politically correct ha colto nel segno. Prova a negare che sia un problema di religione  ma mi fa abbastanza sorridere. Mi chiede di altri viaggi, dato che nell’ora solitaria in cui ha trattenuto il mio telefono si è chiaramente guardato tutte le foto, ordinatamente divise per album con luogo e data. Gli dico che se avessi qualcosa da nascondere, di certo non la lascerei in bella vista. Passa la quarta ora. Mi restituisce telefono e bagaglio, che è stato aperto anche in mia assenza. Lo capisco perché non sono riusciti a chiudere bene la cerniera fallata per la quale servono maestria e anni di esperienza. Indicando lo zaino palesemente manomesso, gli chiedo se deve farmi altre domande e se ha trovato qualcosa di interessante tra i miei effetti personali. Cambia discorso e mi dice che hanno mandato tutto il mio file con la trascrizione dell’interrogatorio, varie informazioni e annotazioni alla sede centrale. A breve mi daranno un responso. 

Foto © Martin St-Amant

Questa è la mia quinta ora. Avevo promesso a Federica la cena in un posto dove andavo sempre, per ricordare i vecchi tempi. Un ristorante palestinese dove nel 2007 si mangiavano i migliori falafel di Williamsburg a pochi dollari. Meno male che non mi è scappato detto nell’interrogatorio, sennò mi sarei dovuto sorbire almeno altre due ore di supplizio. 

Sto entrando nella sesta ora. Non ricordo nemmeno più quando sono uscito di casa. Mi sto cagando addosso. Chiedo di andare in bagno e mi portano in un cesso di quelli da serie carceraria. Tutto di acciaio, lercissimo. L’agente, ennesimo latino-americano ma questa volta dallo sguardo di serpe, entra con me e mi incolla gli occhi addosso. Deve controllarmi in ogni momento, non può lasciarmi mai da solo. Ovviamente mi passa il sentimento e ritorno mestamente nella sala d’aspetto, sperando di non sentirmi male. 

Poco dopo arriva finalmente la comunicazione: sono libero di muovermi sul territorio nazionale americano. Me lo annuncia il detective con il quale ho passato più tempo. Mi stringe la mano e sembra la chiusura di una sfida all’ultimo sangue. Sono esausto ma libero. Oltre sei ore senza poter comunicare, senza nessuna protezione internazionale: a ripensarci fa paura. Eppure devo ammettere che, nonostante tutto, mi sono sempre sentito rispettato. Gli agenti scavavano, domandavano, mi fissavano dritto negli occhi, perquisivano più volte il mio bagaglio, cercavano tracce della mia vita su  Google e guardavano le mie foto di Instagram, il tutto però con un certo garbo yankee. Non so come dire. 

Me ne vado pensando che almeno non c’è traccia, su questo passaporto, del mio ingresso in Corea del Nord. Forse sarei ancora lì a rispondere a domande su quella seratissima tra Marco Rizzini, Dennis Rodman e Kim Jong-un. 

P.S. Che brutta la vita di chi non ha mai letto Moby Dick.

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