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Šabac (Serbia), 2019

Piccole Jugoslavie

Le lenzuola stese, sventolando, producono l’unico suono in mezzo al gruppo di case. Baracche, le chiamano. Sono dieci, tutte uguali, costruite ordinatamente una dopo l’altra. Il confine con il mondo esterno è una rete lungo la statale 137, che collega il villaggio di Varna alla città di Šabac, in Serbia occidentale. Le lenzuola della signora Mira sono bianche, come i muri di alcune case ancora abitate. Quelle disabitate avrebbero bisogno di nuovo intonaco, ma ormai nessuno se ne occupa. Nelle baracche di Varna anche le poche famiglie rimaste se ne stanno andando. Sulle lenzuola sono disegnate due rose, rosse come le tegole dei tetti spioventi. Il verde avvolge lo scivolo e l’altalena vicino al cancello, arrugginiti dal tempo. Installati 28 anni fa, nel 1993, sono stati i giochi per decine e decine di bambini. Oggi sono inutilizzati. Le rose della signora Mira sono le stesse della tovaglia e delle tende nel suo salotto, che è anche cucina e camera da letto per lei e per i suoi due figli. Il bagno è in corridoio, condiviso con l’altra famiglia della baracca. Rosso chiaro, tendente al rosa, è il colore della luce dentro la baracca di Mira.

Centro collettivo di Varna (Serbia), 2019
Centro collettivo di Varna (Serbia), 2019 (Foto © Marco Carmignan)

Torniamo a Varna in una calda estate del 2019, due anni dopo l’ultima volta. Ritroviamo Mira con le valigie quasi pronte, mancano ancora le fotografie e gli album di famiglia. Senza le foto dei suoi genitori, dei suoi figli e del suo caro fratello vivere in quella stanza per dodici anni sarebbe stato ancora più difficile. Nelle foto si vedono case, persone, ma soprattutto la sua città di tanto tempo fa, prima della guerra. Una città di gente che si salutava, che si conosceva. Oggi invece, a Tuzla, in Bosnia-Erzegovina, molte persone sono scappate e sono cambiati i nomi delle strade. Sono cambiati anche i piani bassi delle palazzine: ci sono molti uffici, studi professionali, barbieri. Gli abitanti di una volta si sono rifugiati in Serbia, scappati anche loro per la guerra. È rimasto, però, il nome della via dove viveva Mira: ulica Maršala Tita, via del Maresciallo Tito. 

Mira ama profondamente Tuzla, eppure sente di non appartenervi più. Vuole bene alla Serbia, ma sa di non essere corrisposta: «Anche in Serbia sono straniera. Personalmente non mi sento straniera, ma alcune persone dopo ventinove anni mi dicono: “Eh, quella rifugiata…”. Per anni noi, non solo io, siamo stati solo un numero sul nostro tesserino da rifugiati. Il nome e il cognome non avevano assolutamente alcun valore. Io personalmente non mi sento straniera, sto bene, ho accettato questo paese come il mio, altri non ne ho. Non ne ho».

La tenda nella stanza dove viveva Mira, centro collettivo di Varna (Serbia), 2019
La tenda nella stanza dove viveva Mira, centro collettivo di Varna (Serbia), 2019 (Foto © Marco Carmignan)

Boro studia teologia a Belgrado. È un sognatore e si definisce nomade. I suoi genitori si sono conosciuti in Serbia, dopo esservisi rifugiati a causa della guerra. Come la signora Mira, anche loro sono nati da famiglie di origine serba che vivevano fuori dai confini della Serbia. In Bosnia e in Croazia, prima degli anni ‘90, i territori non erano delimitati su base etnica: la convivenza tra popolazioni e religioni diverse, come i serbi, i croati e i musulmani di Bosnia, era una caratteristica storica divenuta fondativa della coscienza nazionale jugoslava. L’amore tra i genitori di Boro sboccia in un centro di accoglienza. Boro vi nasce nel 1999: «Quella guerra ha portato via molte vite, ha causato sofferenze a molte persone, a molte famiglie. Ma se non fosse stato per quella guerra io non sarei mai nato nel 1999. Molti bambini sono nati in esilio. Molti sono nati dopo la guerra da coppie miste, di persone fuggite al crollo della Jugoslavia e hanno iniziato una nuova vita in Canada, Australia, America».

La famiglia di Boro si trasferisce presto nel centro di Varna. Te ne freghi dei problemi del mondo se sei un bambino e hai lo scivolo e l’altalena per giocare. In quel campo sua nonna gli ha insegnato a leggere, a scrivere, a guidare la bicicletta. Sono le cose belle le prime a tornargli in mente. C’erano molti bambini che giocavano. Era più importante il gioco delle condizioni di vita nelle baracche, che stavano facendo ammalare i suoi genitori. A Boro è capitato di bussare alla porta della signora Mira per chiedere se sua figlia potesse uscire a giocare con lui. 

Oggi il centro di Varna, con il terreno di proprietà della municipalità locale, sta per essere chiuso. Le autorità potrebbero sgomberare da un momento all’altro gli ultimi abitanti. Il governo spinge per i trasferimenti nelle nuove abitazioni costruite con i soldi europei: appartamenti di 30 o 40 mq per persone singole o famiglie. Colpisce l’avversione di alcuni abitanti verso i progetti. C’è chi denuncia la bassa qualità dei materiali da costruzione, chi quella delle forniture e degli arredi, chi l’impianto urbanistico, perché sarebbe un ennesimo quartiere di case lontano dal centro città e popolato dalle stesse persone del centro. Essere considerati come rifugiati, a trent’anni dall’inizio di quelle guerre, allontana la possibilità di appropriarsi di un luogo, di sentirsi a casa. Conferma, invece, la perdurante sensazione di vivere in un rifugio.

Mira non protesta solo per la collocazione urbana, ma anche per l’abitabilità degli spazi: «All’inizio mi hanno detto 40 mq per me e mio figlio. […] Poi hanno cambiato il progetto […] e abbiamo ottenuto 30 mq considerando anche le mura esterne. Io ho anche una figlia e là non c’è abbastanza spazio per tutti e tre. […] Avevo più spazio nel centro collettivo di Varna, in quella stanza malandata, erano edifici vecchi di venticinque anni, fatti in fretta per ospitare i rifugiati il prima possibile, ma di spazio ne avevo di più». Vi è, inoltre, la questione del valore economico: l’affitto è da pagare almeno per i primi sei mesi di permanenza, poi la casa può essere acquistata, per chi ne ha le possibilità. Per Mira è un miraggio: «Questa per me non è una soluzione permanente, è una casetta in affitto! Non posso dire che è mia. Poi dopo sei mesi, per come c’è scritto nel contratto e per quello che hanno detto, l’edificio diventa immobile vecchio e il prezzo si dimezza, chi può comprare compra, chi non può resta in affitto, rinnova il contratto e ricomincia come prima».

La casa prefabbricata in cui vive Mira, Šabac (Serbia), 2019
La casa prefabbricata in cui vive Mira, Šabac (Serbia), 2019 (Foto © Marco Carmignan)

Le valigie di Mira sono pronte per essere trasportate sul camion del trasloco. Anche chi si è trasferito da anni nei nuovi appartamenti ha le valigie piene: sono diventate armadi, librerie, comodini o credenze. Fare le valigie è forse l’immagine più rappresentativa di questi ultimi trent’anni nelle ex repubbliche jugoslave: dal 1991 centinaia di migliaia di persone continuano a farle e disfarle. Ieri era la guerra, oggi, è la costante crisi economica, politica e morale a innescare le migrazioni verso l’Europa occidentale o l’America. 

Nel pendolarismo confuso tra Serbia e Bosnia, tra passato, presente e futuro, Mira si specchia nei finestrini di un autobus mentre oltrepassa i confini sorti nel vuoto di una Jugoslavia che non è più uno spazio, ma solo un sentimento. Questo comune sentimento di nostalgia, che rievoca l’inno di Tito della “fratellanza e unità”, non porta ad assolvere il passato ma a dare un forte giudizio sul presente. Da un lato si cerca il coraggio di affermare il valore di quella parola, Jugoslavia, dall’altro si cercano le responsabilità dello Stato, che non ha impedito all’odio etnico e di classe di irrompere sulla coesistenza sociale e culturale tra i popoli dei Balcani. 

Mira ricorda quell’uomo e quel motto, Bratstvo i jedinstvo: «Avevo quattordici anni quando è morto Tito, potevo capire certe cose. E ora che tutti sputano su quel paese, la Jugoslavia, io non ci posso sputare né come quattordicenne di allora, né come adulta. A prescindere da tutto, anche da cose che apprendo ora, tipo che i serbi erano effettivamente un po’ discriminati da lui, ma se guardiamo globalmente tutta la nostra vita, io ho vissuto quattordici anni nel suo Paese e vi assicuro che chiunque poteva sdraiarsi e dormire dove voleva, nessuno l’avrebbe toccato. Ma era una grande illusione, alla fine è stata una grande illusione imposta quel motto, “Fratellanza e Unità”. […] Noi vivevamo in un Paese chiuso, eravamo rinchiusi. In televisione passava solo quello che doveva passare. Allora non lo pensavo ma lo penso adesso quando vedo i filmati e i film di quell’epoca. Allora ci credevo, i programmi scolastici ne era pieni, tutto ne era permeato. Penso che la mia generazione… coltivava l’amicizia… Io non ho mai sentito dire pubblicamente “lei è serba, lei musulmana, lei è cattolica”. Ma alla fine questo stava covando sotto la cenere». 

Una rondine vola in cielo verso Tuzla (Bosnia ed Erzegovina), 2019
Una rondine vola in cielo verso Tuzla (Bosnia ed Erzegovina), 2019 (Foto © Marco Carmignan)

Boro ha una storia diversa. Non ha conosciuto la Jugoslavia, ma riconosce molto bene il senso di quel motto. Lo collega al sentimento sperimentato nei centri di accoglienza, dove persone rifugiate provenienti da tutte le ex repubbliche condividevano piccoli spazi di vita. Boro nasce in una sorta di “piccola Jugoslavia”, dove i suoi amici erano sì serbi, ma nati in Croazia, in Bosnia, in Slovenia, in Macedonia, in Kosovo.  «Io penso di aver avuto la maledizione e l’opportunità, una bellissima opportunità, di crescere in un contesto che non era uniforme. Da quando avevo un anno ho iniziato a incontrare diverse culture, diverse tradizioni, diversi accenti, valori, addirittura diverse lingue. Sono cresciuto nel centro collettivo di Varna insieme a bambini da tutta l’ex Jugoslavia. Venivano dal Montenegro, dal Kosovo, dalla Bosnia, dalla Croazia. Ogni bambino parlava col suo accento, ancora oggi nessuno ha un naturale accento serbo, nemmeno io. Se non avessi vissuto nel centro collettivo, oggi sarei una persona diversa, probabilmente sarei un nazionalista sfegatato. […] Se anche è vero che la Jugoslavia ha cessato di esistere quando ero all’asilo, nel 2006, io posso dire di essere cresciuto in una piccola Jugoslavia. Lì ho imparato a rispettare gli altri e gli altri a rispettare me».

«Questo è il problema più grande: siamo una generazione confusa. Non apparteniamo a nessun luogo: non siamo rifugiati, non siamo domaći, gente del posto. […] Non sono l’unico a sentirmi così, tutti i figli nati dopo la guerra nei centri collettivi si sentono così». Come per Boro, per molte e molti delle nuove generazioni è difficile definire dove sia la propria casa, perché è altrettanto difficile conoscere chi si è, chi si è diventati, dove si vuole andare, di cosa si ha bisogno. Nell’incertezza del presente, di un lungo dopoguerra non risolto, moltissimi giovani esprimono il bisogno emigrare, per lavoro, per famiglia, ma anche per trovare territori neutrali in cui rivedersi e riconoscersi, distanti dall appiattimento culturale e politico che nei Balcani il tempo non ha attenuato. 

Nelle piccole Jugoslavie di oggi, centri di accoglienza o piccoli quartieri di nuove case prefabbricate, le persone stendono ancora le lenzuola nei cortili. Quelle bianche, con il disegno delle rose, sventolano sul viso di Mira mentre guarda l’orizzonte. Non vede più l’infinita e secca pianura di Varna, dove le sue rose faticavano a crescere.

(Ringraziamo Marco Carmignan per averci gentilmente concesso l’utilizzo delle immagini presenti in questo testo)

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