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I confini di Torino / 19

La strada per Cuorgnè sorvola la tangenziale nei pressi del confine fra Torino e Mappano: nel segnale di Mappano c’è una linea in basso con la scritta “Comune di Borgaro” in cui una falange di autonomisti mappanesi ha cancellato “di Borgaro”. Quando eravamo in missione tecnologica nel cosentino capitava a volte di raggiungere un paesino che si chiama San Fili, uno di quelli che solitamente si dicono “arroccati” sul monte, mentre invece San Fili tutto può essere tranne che un arrocco, così esposto com’è alla vista e al vento, alla pioggia e al tempo che passa, al sole e agli sciami di polline. A San Fili il gelataio produceva artigianalmente un gelato alla castagna di grande impatto organolettico. Va detto che il gelataio di San Fili era in grado di produrre gelato da ogni materia presente in natura, purché dotata di un sapore piacevole. Cosa c’entra San Fili? Niente.

La Falchera è ben visibile da questo sovrappasso, stendendosi a partire dai campi di calcio e proseguendo poi con i suoi caseggiati bianchi, rosati e color mattone. Non credo che in tutta l’area metropolitana torinese esista una parentesi così autovivente come la Falchera, dotata misteriosamente di un suo personale genius loci che non è possibile stabilire come e quando sia giunto qui svolazzando (e da dove) oppure nascendo indigeno (ma come?): eppure la sua presenza è netta, rotonda. La personalità della Falchera è di quelle forti, spigolose, tuttavia ricche di elementi vari molto ben amalgamati, armonizzati. Persino la radice rapace del suo nome gli sta bene indosso. Nella parte di mattone rosso si affacciano alle serpentine delle vie quelle finestre e quei balconcini che potrebbero straziare e che invece si presentano stracolmi di autorispetto che contagia, così a tu per tu con loro ci si stima e silenziosamente si acconsente. Nella parte bianca gli spazi si dilatano curiosamente, perché è proprio qui che la Falchera si presenta come più conclusa e autosufficiente.

Foto © Dario Voltolini

Tre, quattro gradini scavalcano un dislivello e portano in giardini nascosti, o forse dritto nei prati attorno, in qualche anfratto edilizio disegnato algidamente sulla carta e poi, da non luogo, reso luogo dagli abitanti. Le auto ai bordi delle strade fanno sobborgo extranazionale, di quelli in cui la sera cade con un angolo diverso e speciale. Non città.

Come può stringerti il cuore ciò che contemporaneamente te lo allarga?

Caro Riccardo, è in uno di questi campi che siamo andati a fare quella fantozziana partita nel fango in tre contro quattro dopo aver mangiato la cassoeula da te cucinata con tutti i crismi e molto paté. Anni prima venivo spesso a trovare un amico prendendo l’autobus dalla mia barriera, nel buio del pomeriggio d’inverno. La mia era già barriera, eppure mi inoltravo in altre barriere, fino al capolinea. C’era quell’odore di erba e di bruciato.

(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).

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