“It’s the busiest time of the year”, dice John, o forse Ron o Josh – l’accento australiano carico di birra diventa difficilmente interpretabile, soprattutto se in un pub con musica live. Forse anche la frase non l’ho ben interpretata, forse manca un not, perduto nel chiasso o tra le grida di animali notturni alle quali s’impiega un po’ ad abituarsi. Ci si perde così in Australia, proprio come quel not, forse mai pronunciato, seguendo i venti che spazzano via tutto, che scavano e scolpiscono montagne e rocce e sospingono le nuvole che si rispecchiano nell’oceano. Tutto muta: sotto lo sguardo austero di fari che paiono abbandonati, attorno a villaggi disanimi, sopra le strade silenziose che provano stancamente a disegnare una nazione. Tutto si muove e lascia tracce in un tempo che non ha nulla a che fare con l’essere umano, atomo ambizioso che tenta di contenere l’incontrollabile e di sfidarne la potenza o che, forse più saggiamente, si limita ad ammirarne l’immensità.
In Australia, soprattutto nella parte che va da Kangaroo Island fino a Sydney, passando per la Great Ocean Road e Melbourne, mete turistiche per eccellenza, dove un europeo qualunque, suggestionato da guadagni facili, avrebbe tirato su metropoli alberghiere, ci si può fermare a contemplare la magnificenza della Terra, riconoscendo così la pochezza dei sogni di un’umanità sempre più sola e misera. In questa serie fotografica l’orizzonte delinea la possibilità o forse l’inarrivabile, sia esso disegnato dall’Oceano Indiano o dal Mar di Tasman oppure dalle coste a tratti aride a tratti lussureggianti dove le persone si muovono quasi invisibili, senza lasciare traccia. Proprio come fanno le maree, silenziosamente, sulle spiagge.

Foto © Dario Pellegrino