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I confini di Torino / 23

Nelle figure degli snellissimi tralicci di metallo già da lontano si indovinano alcuni spettrali risorse del luogo, forme di energia invisibile che trapassa i corpi, senza che la si possa sentire, magneticamente, elettromagneticamente, polarizzante, minacciosa e nobile. La strada sale contorcendosi e alla fine, raggiunta una certa linearità e un certo piano di scorrimento, lascia intravedere fra le aperture della vegetazione la piana del Po tempestata di lucine di segnalazione, di abitazioni. Quella è la parte di pianura che la collina divide da Torino. Ondeggia nell’aria tremolando vaporosa, impenetrabile, tutta lì adagiata ventre all’aria: non esiste la chiave per aprire la piana del Po.

Moncalieri, Torino, Pecetto. Colle della Maddalena. Parco della Rimembranza. I locali del bar, il parcheggio, in un giorno dopo la pioggia, l’asfalto bagnato, automobili fuggitive, abitazioni sparse per la collina, sigillate, incapsulate in un uovo. Poi la strada a scendere, improvvisamente larga, comoda, accogliente. È qui che ritorna lo sgomento di una volta – della prima volta – quando arrivando fin quassù venne da domandarsi cosa fare, cosa succederà adesso, quale perno fa da fulcro a tutta la situazione, nessuno? Il motivo per cui si sale qua sopra, qual è? Qual era stato, allora? La strada larga dalla vegetazione alta ai lati, cupa nel verde sempreverde, deserta, anche oggi lascia inquieti, perché il bandolo sfugge, non c’è niente da fare. Forse, se negli anni si fossero conosciuti, e poi frequentati, alcuni abitanti della zona, allora la si sarebbe compresa almeno un po’, pensandola come un luogo in cui la gente vive, gente che si può andare a trovare, a cui si può telefonare in qualsiasi momento da lontano, per farsi dire cosa capita lì, gente nelle cui abitazioni talvolta persino pernottare, in modo da svegliarsi all’alba ed essere già in zona, tutto questo avrebbe aiutato la familiarizzazione che non c’è stata e oggi non è più possibile.

Foto © Dario Voltolini

Tutta la zona dedicata alla memoria, silenziosa, nei suoi viali, nei suoi alberi, tutta la presenza monumentale, compresi i tralicci magri e verniciati, afona e verticale, oltre i muri delle disperazioni, desolata, orgogliosa, gelidamente seduce. Scivola ghiaccia attorno al colle, si infittisce di rami e di intrichi, ma sfavilla in certi movimenti sparati in su, di conifere, di ripidi muraglioni, la böckliniana visione ferma.

In tutti questi anni che sono passati dalla prima volta che ci si è imbattuti nella figura che si erge al termine del Gordon Pym di Poe, anziché restare enigmaticamente terribile, questa figura si è a poco a poco trovata un posto in noi, senza peraltro mai svelare di sé qualcosa di più. Siccome rimane a segnare un limite (che in origine era il limite del racconto, che infatti al suo cospetto terminava), anzi a vegliarlo, ha finito per farci compagnia nelle situazioni di esperienza di un confine. La figura ci sgomenta ancora, ma quello sgomento non ci fa più paura. Sarebbe al contrario molto inquietante se non lo provassimo più.

(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).

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