Rivista di luoghi, storie e altro

I confini di Torino / 22

Forni e Goffi. Si sale in prima, curve strette. Strade che finiscono in mezzo alle case o dentro a un cortile. Non si va al di là, forse solo a piedi, in bici verso l’Eremo? Pino, Pecetto? Avevo promesso all’amica che sarei andato a farle visita passando di qua, ma non è successo. Bottiglie che entrano dentro se stesse, non c’è un interno opposto a un esterno, sviluppo dell’anello di Möbius nei solidi. Una vecchia idea: noi che, come un vetusto sistema operativo al fondo dell’ultimissima interfaccia grafica, manteniamo il dialetto sotto la superficie dell’italiano che solamente ormai parliamo, spesso usiamo l’espressione “solo più”. Noi non ce ne accorgiamo, perché per noi è italiano corretto. Ma quando diamo il nostro testo in giro, stai sicuro che capita sempre l’editor calabrese che s’infuria: “Solo più? Ma che è, dove siamo?”. Questa nostra locuzione è un calco dal dialetto. In italiano nessun “più” segue il “solo”. Eppure nessuno ci accusa di snobbare il passato remoto. E noi lo snobbiamo proprio perché il dialetto non lo contempla. Inoltre, siamo sinceri: non c’è altro modo in italiano per dire “solo più” esattamente intendendo “solo più”. Tutte le soluzioni sono deboli. “Abbiamo solo un filo si voce”, e allora? “Abbiamo solo più un filo di voce”, ah, quindi avete urlato a lungo a squarciagola!

Variamo dunque un comitato per la difesa e la diffusione del “solo più”! Tanto è inutile, anche i più smaliziati di noi prima o poi ci cascano. Ci sono traduzioni di libri ebraici, fatte da persone dal cognome straniero centro europeo, che mettono in scena personaggi i quali attendono in un aeroporto, e mancano solo più due ore alla partenza. Non è bello?

Foto © Dario Voltolini

Guidammo, percorremmo strade, svoltammo all’improvviso tornante, domandammo informazioni sul proseguimento della strada, fummo fatti oggetto di strani sorrisi, quale strada pensammo di aver imboccato mai? Stemmo accorti. Rallentammo, poi accelerammo. Ci venne incontro un’utilitaria, frenammo: il ragazzo abbassò il finestrino. “Vai piano!” urlò. Ebbe ragione lui. Avemmo torto noi. Gruppi di persone si mossero verso la chiesa. Parcheggiammo, scendemmo, annusammo: tutta la ventosa primavera tacitò, tacquero i volatili, cessarono i rumori delle strade. Non restò nell’aria, a causa di un vento che alitò improvviso, alcun odore. Anzi, no, ci fu solo più l’odore acuto e languido dell’aglietto, a farsi respirare.

Nelle distorsioni che il topologo fa delle figure geometriche è nascosto un grano di verità, ma non si sa dire di che tipo sia. Non riguarda la permanenza nella mutazione, e nemmeno l’essenza della forma, la sua condizione minima e sufficiente. Credo che abbia a che fare con le movenze della nostra immaginazione, che non è di un tipo solo. L’immaginazione geometrica in questi casi è uno stimolo per l’immaginazione visionaria. Ma questo significa che la nostra mente può fornire materiali a un’altra parte (facoltà? funzione?) della nostra mente. Dunque sarebbe possibile per la caldaia della mente essere alimentata da un carbone che lei stessa produce? E fino a che punto? Esiste un limite a questa produzione autoalimentata, un confine invalicabile? E oltre, cosa ci sarebbe?

(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).

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