La strada da cui si accederebbe al castello del Drosso è sbarrata. Alcuni cartelli informano chi passa di lì, e vorrebbe transitare, che non è possibile. Le frasi che sono scritte sui cartelli sono affini a certi indovinelli misteriosi, rebus privi di immagini. Il castello è in fondo a un territorio pianeggiante e in qualunque ora del giorno, con qualunque luce, offre di sé soprattutto la sagoma, i contorni.
Qui si passa da Torino a Beinasco. Verso la strada una facciata di fabbrica reca la propria insegna, un po’ mestamente, con caratteri che appaiono intimiditi dal tempo e dall’accelerazione del mondo capitalista nelle sue declinazioni industriali e metalliche a vari livelli, una questione occidentale. Per radio trasmettono le musiche che hanno accompagnato i film dell’agente segreto James Bond. I commentatori poi delineano le caratteristiche salienti dei vari 007. E citano anni lontani, che sembrano però nel ricordo gli unici veramente moderni: si tratta di un errore di prospettiva che dipende anche dal mezzo radiofonico. Probabilmente c’è una miscela poco chiara di modernità dei tempi e di giovinezza delle persone, in ogni caso è inspiegabile come certi marchingegni del servizio segreto britannico immaginati in quei vecchi film appaiano nella memoria ancora con il loro contenuto futuribile intatto, forse preservato in una capsula di ironia.
Sterpi infracomunali, vegetazione di confine. Capannoni larghi sul territorio come geometrici rospi. Invece la stessa zona appare diversa se la si vede al volo viaggiando in macchina, magari sul raccordo per Pinerolo: intanto la si punta di sbieco, perché scivola dietro, e necessita dell’aiuto dei retrovisori. Ma non è solo questo. È anche la sagoma del castello che si presenta in modo radicalmente diverso, infatti sembra sorgere al culmine di un dislivello, dominando i territorio dabbasso, quasi ai margini di un balcone naturale. Non sembra dimenticato, ma ancora potente, nel suo ruolo territoriale.
Ma è soprattutto l’edificio industriale che prima appariva dimesso a sorprendere per la sua agilità e salute. Una scritta leggibile e ben tenuta, viva e nitida. Un’insegna nuova, comunicativa, visibile a distanza. Il fatto è che questa parte della fabbrica si affaccia al traffico dei raccordi stradali, è da qui che si deve guardarla, è qui che deve mostrarsi. Quell’altro era il retro, era la facciata di servizio.
Ora in questo punto del territorio sorge il Warner Village, un multisala che nessuno poteva prevedere. Vorrei permettermi una piccola parentesi su quello che viene chiamato nonluogo. Ecco, io credo che in realtà i nonluoghi non esistano, anche se l’invenzione di questo concetto da parte di Marc Augé è stata fruttuosa. Come cozze noi ci aggrappiamo a ogni cosiddetto nonluogo, facendolo diventare immediatamente un luogo. L’accozzarsi è talmente rapido che il nonluogo ha tempo di esistere solo nella mente di chi lo pensa come tale.
(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).