Rivista di luoghi, storie e altro

I confini di Torino / 12

Passando dal territorio di Grugliasco a quello di Torino scendendo per corso Allamano sembra di infilarsi in città come fiocchi di ovatta in un tubo: leggeri e spediti all’inizio, compressi e frenati al fondo. Non è solo l’impressione del traffico che si complica e del rettilineo che va a disperdersi nella rete delle vie ortogonali tra i palazzi, è anche l’assenza progressiva di orizzonti, che prima erano piuttosto distesi e ora sono compatti a muro, stretti intorno a noi.

Alcune costruzioni di cemento crudo si proiettano dritte verso il corso, unite a un corpo comune, sono scuole. I ragazzi e le ragazze stazionano al cancello d’ingresso, siamo all’uscita. Semafori regolano il flusso. Il cemento è puro volume. Dentro, l’atrio è spazioso. Tabelle, bacheche, affissioni, pannelli. Poi porte a vetro. Corridoi. Scale. Corridoi. Aule. C’erano, forse, delle ortiche fuori dall’edificio di cemento, nella direzione della campagna verso sud, e per andare a raccoglierle bastava il richiamo di un poco di tepore nell’aria. Ortiche per minestre.

Al confine c’è una tettoia di cemento che ha i segni di ruggine sciolta dalla pioggia, qualche ferro superiore ossidandosi liquefacendosi stinge. E soprattutto un complesso bello corposo, religioso, con colori puliti e linee solide, rette, e sentori di mattone: un similcampanile tozzo e forte come il collo di un pugile sta sollevato a mezz’aria, nel suo gesto a pianta quadrata. Se là sopra c’è qualche tipo di balconata accessibile, una vista sui lembi di terra non edificata e poi sui prati, o i campi, dovrebbe essere possibile e persino toccante, proprio camminando costeggiando l’eventuale ringhiera della possibile balconata del campanile solidificato.

Foto © Dario Voltolini

La forza e l’immobilità della costruzione nel suo complesso e del campanile come esempio pertinente sono chiaramente percepibili sia osservando i loro volumi mentre si passa in macchina, sia posteggiando per qualche minuto e fissandoli con attenzione. È proprio tutta l’aria attorno che tramanda questa solidità, forse infrangendosi negli spigoli e rimbalzando indietro. O forse turbinando in tutte quelle sue turbolenze locali di quando incontra un ostacolo immobile. In ogni caso, sembra di ascoltare una composizione di Morton Feldman, una di quelle tramature a tappeto che non hanno momenti culminanti – non hanno la retorica del momento culminante – come per esempio Coptic Light.

Qui vicino stava e forse ancora sta una signorina apparentemente mite e raccolta, magrolina. A lei portavo i fogli manoscritti della mia tesi di laurea da battere a macchina, Teorie della proposizione. Ancora pochi mesi fuori corso e l’avrei scritta direttamente sul pc. La signorina, mettendosi alla macchina per scrivere elettrica, si trasformava. Era una metamorfosi spettacolare: prima di tutto lei e la macchina diventavano un animale unico. Ma soprattutto, l’animale era un animale da guerra, una macchina mitragliatrice intelligente. Una raffica, una sventagliata di colpi, ma tutti mirati, uno per uno. Lei calcolava gli spazi per giungere al margine in modo giustificato. Li calcolava scrivendo. Non sbagliava mai. In trance sparava caratteri come fuochi d’artificio. Sfilato l’A4 dal rullo, la macchina era un ferro e lei una signorina mite, un po’ timida, assai riservata.

(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).

Condividi