Piazza Bengasi è un teatro complesso fatto di molti piani, di quinte e fondali in attesa della scena giusta, nella scenografia a nervi scoperti, a tendini scorticati via dalla pelle, dove si mescolano i cavi dell’illuminazione e le meccaniche di scorrimento a rotaia, i mandrini e le catenelle, i cordami e i contrappesi. Dove l’intrico delle stanghe avvolge il traffico passante, le luci dei semafori arrossano la scena, l’inverdiscono, l’ingialliscono calibrati dal fissaggio delle boccole di serraggio. Scopano via gli addetti i resti del mercato, quando è sera: a un angolo la sede della BNL sembra inerpicarsi come edera nuova sul tronco più annoso del palazzo, intatto in alto e mascherato in basso. Dall’altra parte il sedici è un numero civico gigante in lega metallica: segna un edificio che sale con successivi blocchi vuoti e infine si cristallizza come un castello ortogonale di travi.
Un ristorante cinese rosseggia. Macellerie splendono, specchiate, laminate, candide smaltate, e i muscoli delle bestie macellate aspettano il filo d’acciaio dei coltelli: una macelleria grande di carne equina, dove più scure sono le fibre dell’animale. Spiccano illuminate le serie di finestre della scuola. Ci sono finestroni ad arco che solamente le scuole – e quelle elementari in particolare – possono avere. Eccole là.
Un masso vagante alla deriva in mezzo alla piazza, ocra, abbandonato, con cartelli dalle scritte agghiaccianti, sembra attendere il disgelo per scivolarsene a valle, giù per via Corradino, poi nel Sangone, poi nel Po, nell’Adriatico, eccetera. Non c’è un interruttore generale, quindi le luci brillano ciascuna al proprio ritmo, come le stelle quando l’aria tremola.
Incastonata in una panetteria dalla doppia bocca, se ne sta una singola merceria. Un paletto esile sostiene un cartello umile: Torino. Non molto distante il nome della città giganteggia invece a picco sulla strada, incoronato e tutto quanto, Comune d’Europa. Qui comincia Moncalieri.
Se ci si infila in via Torrazza Piemonte si scopre una cosa che poteva essere dedotta dall’andamento di via Vigliani, e cioè che passa una ferrovia: se si va in fondo alla viuzza si finisce contro la ringhiera di calcestruzzo che fiancheggia la sede dei binari. Passano un locomotore in qua, un treno in là, un treno in qua. L’uomo che aspettava all’angolo scatta e sale sulla macchina che è infine arrivata a prenderlo.
Un giorno ho preso il treno che da Torino va a Pinerolo. È uno di quei convogli a due piani, per le tratte locali. Sembrava di passare in un mondo parallelo a quello dell’auto. Le stazioncine minuscole e deserte avevano il nome di quei paesi della cintura nelle vicinanze dei quali il traffico romba nelle ore di massima congestione, dove semafori rossi producono incolonnamenti in ogni direzione. Solo tangenziali, raccordi, rotatorie alleviano l’incastro. Eppure i nomi – e dunque i luoghi? – sono gli stessi. Il treno rallenta, si ferma. Riparte piano piano. Attraversa la campagna. Quando va lungo una strada, capita che superi in velocità un’automobile. Eppure, guardandola dal finestrino, l’automobile appare paradossalmente (proprio nel momento in cui la si sorpassa) più veloce, solo perché è più isterica del treno.
(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).