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I confini di Torino / 10

Arrivati a Superga c’è quello spiazzo in piano che da sempre allarga anche la percezione dei luoghi a chi ci giunge salendo in macchina o a piedi nell’ultimo tratto dopo la stazione di arrivo della dentiera. Anche se da fanciulli il piazzale appariva sterminato, e ora invece le sue dimensioni si riducono alla realtà, la sensazione di apertura rimane, sostanzialmente intatta. Così come, se non veramente il mistero, almeno il ricordo di un lontano mistero: il senso segreto di quella costruzione laggiù, con quei trabiccoli per i rimbalzi delle onde radio (forse), con quelle finestre chiuse (o socchiuse), quell’intonaco uniforme (bianco, forse). E immaginavamo allora suore nascoste e silenziose spostarsi nella penombra umida delle stanze, fresca di collina, odorosa di stantio, suore doppiamente nascoste anche sotto gli abiti, senza fisionomia, senza volto e senza mani, e forse solamente una paio di cani al guinzaglio oltre il cancello, nel cortile di cemento che potevamo solo indovinare, sbattevano catene e molto sommessamente guaivano. Niente, in realtà, segnalava presenze monacali. Niente. Puro frutto della fantasia (forse).

Più in basso, al bivio, un accenno di paese, o borgo. Un accenno che non si sviluppa in nessuna direzione. Quando diamo una mano di smalto su una superficie piana e poi, dopo qualche ora, incautamente saggiamo con la punta del dito se la vernice sia asciugata, allora capita che solo la pellicina più superficiale sia asciutta e sotto rimanga il fluido: la pellicina allora scorre e si raggrinza intorno al dito, corrugandosi e rimanendo poi così rinsecchita nella posa definitiva. Così appare questa piega di collina che si alza verso Superga da un lato, scende verso Baldissero dall’altro – e qui sconfiniamo – e con uno scatto delle reni riprende anche di nuovo a salire e a rimanere di qua, verso la città, nella compassata bellezza della strada panoramica, che si colora di blu pervinca in certe ore, di verde smeraldo in certe altre, di argento persino sull’asfalto, in certi giorni.

Foto © Dario Voltolini

Per la tragedia bisognerebbe sempre riuscire a trovare le parole, ma proprio per questo ogni volta le parole tentano di fuggire, non vogliono dire niente (si rifiutano e tacciono, proprio loro: le parole). Resta la basilica, chiusa in un suo tempo intoccabile. C’è quella vista sulla città, e un silenzio senza quiete. Dietro la collina si apre la pianura infinita.

Questo corrugamento di origine appenninica chiude la città come suo unico confine naturale, contraddetto peraltro dai confini cartografici che includono parte della collina nella città. Inspiegabile, ma il mistero sta oltre la bassa collina e non oltre le gigantesche Alpi. Non è salendo nelle gole e nelle valli alpine verso un confine fra Stati, ma nelle curve che portano a Superga, a Pecetto, a Chieri, al Pino, a Cavoretto, che io, perplesso per la mancata cognizione dell’altra parte, mi scopro inquieto. E anche se si vociferasse di uno Yeti in val di Susa, per me sarebbe lo stesso. Chieri, questo è l’enigma. Forse va letto così:” Chi eri”?

(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).

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