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I confini di Torino / 8

Anche trapassando il confine tra Torino e Collegno andando per corso Francia si trova un distributore di carburanti, che sia una prerogativa di questo particolare confine? Anzi, se ne trovano due, poco distanti uno dall’altro. Bighellonando sul marciapiede del controviale, verso mezzogiorno, si può vedere il sole che illumina queste facciate e lascia in ombra quelle dall’altra parte del corso. Partono alcune vie, dedicate perlopiù a qualche genio, che vanno a finire, in fondo, al cospetto di una cancellata straordinariamente lunga. Prima c’è un edificio di quattro piani, un parallelepipedo più lungo che alto e più alto che largo. I suoi balconi sono di quelli scavati nella facciata, a cornice rettangolare, non di quelli che ne sbalzano fuori. Quando si esce su uno di questi balconi sembra sempre di essere ancora un po’ in casa, però essendo riusciti a inscatolare un blocco d’aria esterna, un pezzo di spazio.

Un liquore all’anice che non incontravo da tempo, chiamato Marie Brizard, è esposto come in una vetrina, insieme ad altre bottiglie, in un bar.

Alcuni palazzi recenti schizzano fuori dal suolo. Sono aguzzi, trapezoidali, innervati di colonnine e cilindretti. Il movimento della loro fuoriuscita preluderebbe a un grande gesto, ci si immagina che come agili quarzi debbano prorompere in altezza raggiungendo almeno le prime nuvole, mentre invece il salto si trattiene appena accennato e loro se ne stanno buoni, tutto sommato quieti, ciascuno disposto secondo le proprie coordinate, nessuna facciata parallela a quella degli altri. Ampie zone sono in corso di edificazione, ci sono accessi vietati ai non addetti ai lavori.

Penso a una cosa: finora nella giornata ho visto un certo numero di chiese. Ebbene, nella maggior parte c’era un funerale. Si scorgevano i drappi viola accanto alle entrate anche da lontano. Questa, invece, la chiesa della Madonna dei Poveri, per oggi è tranquilla, senza drappi. Ricorda tuttavia pazzamente una scarica elettrica, con quegli angoli aguzzi e gratis, che fingono di travare un sottotetto che non esiste, acuminati come cacciaviti di precisione, da orologiaio. Vertebre di un animale dalla schiena spiovente e senza spina dorsale.

Foto © Dario Voltolini

Quella cancellata è davvero sorprendente: separa queste case dalla pianura. È come se tutta quella distesa di superficie che si apre là dietro fosse una specie di cortile, ma sconfinato. Chi ci avrebbe mai pensato: una pianura recintata lungo un lato. Passando corso Francia tutto può venirci in mente tranne che a qualche decina di metri, dietro le abitazioni condominiali, esista una pianura deserta. Ma, ora che lo sappiamo, la sensazione di trapassare una serie di quinte, di scenografie, è forte. Siccome una città è anche una continua apparizione di costruzioni dietro altre costruzioni, questo inatteso stop alla riproduzione di se stessa ci ricorda che le aree metropolitane, come persino i continenti, hanno prima o poi un termine. Non si tratta di un confine burocratico, ma di due sistemi che si fronteggiano premendosi l’un l’altro. Forse quella cancellata lunga come un treno è l’aria che si è solidificata in questa morsa pressante di città contro pianura. Chissà dopo quanti passi, camminando sulla pianura allontanandosi dalla città, ci assalirebbe il disagio di non indossare gli abiti adatti? E quali sarebbero gli abiti adatti, al centro di un piano di terra indistinta? E non basta, perché poi – lo so – da qualche parte in questi luoghi c’è addirittura una specie di canyon che precipita in basso ogni volta inatteso, sebbene tutt’altro che selvaggio, anzi ben mescolato alle segnaletiche di Tangenziale e Pianezza e Alpignano e Autostrade Milano Aosta Savona Piacenza Trafori Frejus.

Non curandosi di questo fatto strano della pianura che comincia (finisce) lì dietro, tutti gli istinti suburbani continuano a funzionare. Anche chi non ha mai posato prima i piedi su questi asfalti, ma semplicemente ha percorso in auto la zona, può con una certa sicurezza dirigersi in una direzione precisa, scelta come se si fosse di casa, alla ricerca di un calzolaio. Cose che capitano in città. Si arriva, si parcheggia, non si è mai stati qui. Si attraversa. Si punta decisi quell’angolo. Si svolta. Ecco il calzolaio. Come pure il ristorante cinese, l’ufficio assicurazioni, l’ingresso condominiale con il suo citofono serenamente prevedibile.

Il calzolaio è una persona molto gentile. Parla con un accento caldo, forse del centro Italia, o forse del Sud, dopo aver fatto media con quello del Nord. Di tutto ciò che è appeso alle pareti è un pellame ad attrarre maggiormente l’attenzione. Scuro, marrone bruno. Fa pensare a un pangolino: chi l’avrà scuoiato? Ma chissà come è fatto davvero un pangolino. Allora era un piccolo coccodrillo? Un piccolo alligatore? Una piatta sagoma di cuoio.

Da queste parti passerà la metropolitana che stanno costruendo. Nei dintorni abita Sabina, la prima maestra di nostra figlia, quella della prima scuola, la materna. Suo marito un giorno mi ha fatto vedere al microscopio alcuni cristalli sbalorditivi, per forma, colore ed esistenza. I cristalli: la difficoltà a meditare su di loro, benché se ne senta l’urgenza, potrebbe dipendere dal fatto che sono loro a meditare su di noi. Alcuni cristalli di uranio decadevano, assai lentamente.

(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).

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