Passavo esattamente di qua. Sono trascorsi circa due mesi: guidavo e con me viaggiava un mio amico, Furio, contrabbassista jazz. Ricordo che scavalcammo una strada e nella discesa apparve sulla destra un distributore di carburanti, posto proprio tra il cartello di fine Torino e quello di inizio Collegno, cioè – se per scherzo facciamo l’ipotesi che i confini passino esattissimamente nel luogo dove sorge la segnaletica, per così dire proprio a filo sotto i cartelli – in una zona franca estranea a entrambi i territori comunali. Oppure i confini sono linee larghe, molto spesse, circa cinquanta, settanta metri. Allora i confini segnati sulle mappe, quelle linee nere, potrebbero essere addirittura in scala, rispettose delle stesse dimensioni della linea, del suo spessore. Certe mappe, però, segnalano i confini con linee tratteggiate, una situazione che la realtà territoriale non potrebbe concepire. Tutti i territori si mescolerebbero, allora, penetrando nelle discontinuità del tratteggio uno nell’altro.
Mentre percorrevamo il pezzo di strada di fronte al distributore, chiesi al mio amico di consigliarmi, lui che è esperto, quale musica jazz ascoltare. Come muovermi in quella zona. “Brad Mehldau”, disse.
Ora, mentre scrivo, ascolto Lament for Linus.
Prima del distributore, sullo stesso lato della strada, c’è una paratia mobile che incombe su un modesto canale d’acqua. La piccola chiusa è alzata. La giornata invernale è soleggiata, con quella polverina di umidità fredda che staziona nell’aria e sfuma i contorni delle cose in lontananza. La massa del castello di Saffarona ha un lato in luce che vibra in silenzio. Nei campi piatti sono perdute alcune cascine, staccatesi per qualche fenomeno di erosione dalla massa cittadina, alla deriva.
È una deriva così lenta che per accorgersene occorre visitare i luoghi a distanza di molti anni. Siccome in fondo si alzano con tutte le possibili minacce le montagne delle Alpi, c’è da immaginare una futura collisione laggiù, con tutti questi frammenti di città che vanno a sgretolarsi sui quei fianchi di pietra altissimi, sbriciolandosi impercettibilmente, sfarinandosi nell’aria.
Su un cippo di pietra sono scolpite le distanze: da una parte “Km 5 + 850 da Torino” e “Km 90 + 330 da Claviere” dall’altra.
Prima di scavalcare la strada il mio amico mi aveva fatto notare l’iscrizione “Casa circondariale”, ribadendola come “galera”.
E in tema di confini è forse questo il punto giusto per ricordarsi del nostro inverosimile amico Gianni che, appunto, di confini sembrava non averne alcuno. Il punto è questo perché Gianni me lo ricordo percorrere la penisola in tutte le direzioni trasportando un manipolo di jazzisti sulla capiente auto del fratello. I jazzisti, arrivati nei vari luoghi, suonavano. Avvolgevano con la loro musica un libro che il mio amico Gianni aveva pubblicato e che parlava di jazzisti. Il libro è quello di Geoff Dyer, Natura morta con custodia di sax, e a sorreggere musicalmente i jazzisti, con il suo raffinato contrabbasso, era proprio l’amico che mi ha consigliato l’ascolto di Mehldau.
(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).