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I confini di Torino / 6

Conlon Nancarrow ha mescolato tempi e metri diversi, ritmi differenti, accelerazioni e rallentamenti, concrezioni di suoni che precipitano e gingilli rarefatti, improvvisi. Ha messo insieme velocità in rapporti impensabili, espressi da radici quadrate, frazioni, canoni combinati irrazionalmente, decimali dopo la virgola, strati di voci giustapposti, aggregati, in frizione scintillante. Ha sfruttato la litigiosità delle parti per un esito in cui niente va a posto, niente si adegua, niente cede al rivale, niente aliena proprietà per un bene comune. Eppure tutto sta insieme, senza rompersi e, però, anche senza impecorirsi. Il magnifico Nancarrow ha fatto questo in tutta la sua opera, la quale è fuori dalla portata di mani umane su tastiere lisce in cui tutto è o bianco o nero. Ha fatto questo per i suoni poveracci della pianola meccanica.

E, in un gruppetto di studi, Nancarrow ha raddoppiato il gioco, segnalando l’inizio di una moltiplicazione e non solo di una somma, vale a dire indicando un territorio dalla soglia dell’uno per due e non da quella dell’uno più uno, che a tutta prima sembrano la medesima soglia, però non lo sono, componendo per due pianole in reciproco rapporto casuale. Ciascuna vada secondo le proprie meccaniche, srotoli il proprio rullo come gli va, libera, e insieme ci diano il responso; pronti? via!

Qui, tra Torino, Venaria e Collegno, dove la strada Druento è anche via Druento secondo certi stradari, persino doppia in parallelo senza che le mappe stiano a perdere tempo a dirlo, si balza con un cavalcavia che passa sulla tangenziale nella zona chiamata Savonera. Insediamenti recenti, cavi, segno di un’attenzione residenziale che un tempo non c’era. E quando uno sviluppo segnala così il ritmo della sua crescita accelerata, accade che tutto intorno ne risenta, senza però cambiare, come quando il suono di una tromba penetra nello stanzone in fondo alla caserma.

Foto © Dario Voltolini

Anche le sterpaglie dei confini comunali sul cavalcavia hanno un guizzo: al di qua del guardrail, sul bordo della carreggiata ma già sull’asfalto, smilzi alberelli si innalzano orgogliosi, abbandonata la natura di cespuglio. Nel buio, sulla tangenziale i fanali rossi e quelli bianchi o gialli lasciano rapide strisce orizzontali. Qualche segnalazione di sorpasso appare lì, poi là, poi laggiù.

Sulla sinistra la mole scura del mattatoio riempie di spavento sovietico lo spazio nero.

Andavamo talvolta a cena in un’osteria della Savonera. Non ricordo niente di quel luogo, ma so che ha contribuito a costruire in me la valenza emblematica dell’Osteria. Più vado avanti, più colloco indietro l’avvento dell’immagine originaria dell’Osteria. L’immagine nella cui prominenza si annullano le differenze fra tutte le osterie. Forse al fondo dello scavo c’è l’Osteria del Gambero Rosso di Pinocchio. A proposito: in un campo qui vicino, che non riesco, passando rapido, a stabilire se esista ancora, ho fatto un giorno fallo su mio padre, a centrocampo. Poi, prima di andare via, lui ha segnato. Io invece avevo creduto, durante la partita, di sentire un fischio e così avevo preso la palla in mano, in area. Rigore.

(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).

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