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I confini di Torino / 4

Dalla strada che porta da Torino a San Mauro parte sulla destra una via del Porto che, per la semplice suggestione del nome, ci fa immaginare ciò che non abbiamo. Invece sulla sinistra, nascosto dietro gli edifici che bordeggiano la strada trafficata, quietamente si sviluppa uno di quei sobborghi che non vediamo mai. Anche qui passa il confine, segnalato all’imbocco di una stretta via a senso unico che si infila fra due costruzioni, mentre la via principale curva e fiancheggia un supermercato spazioso, un ambiente ordinato in cui può sorprenderci il conforto che ci è dato dall’incontro improvviso, dietro lo scaffale, con l’insubordinazione della frutta e soprattutto delle verdure.

Il sobborgo si compone di fabbricati eterogenei. Tuttavia lo spirito uniformante del luogo riesce a combinare le differenze attorno alla media volumetrica degli edifici. La cascina che ora è diventata una costruzione dal bianco intonaco e dai solidi infissi scuri accoglie, in quanto abitazione, uno spazio analogo a quello racchiuso nel capannone dietro gli appartamenti e uffici della bifamiliare a due piani che si affaccia sulla strada. Le ville con giardino, nonostante siano la testimonianza di un’idea abitativa opposta a quella rappresentata dalle vicine villette a schiera, sono simili a queste nello scorrimento laterale del tempo nel sobborgo. E persino alcuni palazzi condominiali, dalle dimensioni questa volta incompatibili con quelle delle altre costruzioni, appaiono come sostanzialmente idonei a esistere nel luogo in cui sorgono.

Foto © Dario Voltolini

Il segmento di un filare di alberi più alti dei fabbricati appare a una media distanza, in certe svolte. È un segno vegetale del terreno libero che comincia non lontano; o finisce, a seconda.

Passa una formazione variopinta di anziani ciclisti che lasciano una scia di suoni clicchettanti fatti di ingranaggi lubrificati, raggi nell’aria e gomma su asfalto.

Il fiume non si mostra mai, piuttosto si immaginano sponde private sul retro delle case, ma subito l’immaginazione si sfalda e resta la vista rapida di chi passa in fretta: quello che si apre oltre la cinta, attorno alla pietra grigia del villino, è forse un microparco? Un luogo fatto di aria tra gli alberi e di ombre in cui passeggiare in silenzio, tuttavia concluso e ridotto al punto che della passeggiata non c’è che il simulacro, però suggestivo come ogni avvenimento dei luoghi discosti.

Mi hanno raccontato i maestri che nella scuola elementare il Po alluvionando è entrato e ha invaso tutte le cantine. Il fiume dalle parti della scuola fa un’ansa: l’ondata di piena ha tirato dritto ed è uscita dagli argini. Mi dicevano che nel limo si trovava poi di tutto, ma non solo nel senso della varietà di oggetti strappati via dall’acqua e accatastati casualmente dal riflusso, no: proprio di tutto come nei sogni. Certo è impressionante l’idea che un fiume possa uscire di strada come un automobilista che non si presenta pronto alla curva. La sponda era un confine naturale fra acqua e non-acqua, non era un confine convenzionale come quelli fra certi comuni, tracciati sulla carta e non sul terreno. Ma il Po ha tirato dritto e invece che nel suo letto è passato in quelli degli abitanti.

(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).

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