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I confini di Torino / 3

La cassetta suona She brings the Rain dei Can e corso Romania diventa Settimo lasciandosi dietro i fabbricati della Fiat Avio per essere accolto da quelli della Città della Calzatura, dirimpetto ai quali un sistema condominiale ha vie con nomi di mari: Mediterraneo, Tirreno, Adriatico.

In un complesso di edifici abbandonati è rimasto un appartamento abitato: ha un cortile in cui c’è un’automobile parcheggiata. Le facciate con le finestre chiuse in sgretolamento fanno una parete piuttosto lunga, al fondo della quale però si rianimano le sorti della via. Un centro meccanizzato delle Poste accoglie e sviluppa lavoro fra le proprie pareti: questo è non essere un luogo abbandonato in via definitiva.

In un angolo dell’incrocio un’area piuttosto vasta ha l’aspetto di quelle zone in cui si sistemano i corrieri espresso. Qualche ufficio, un appartamento o due, cancelli su rotaia, e poi tettoie e larghi spazi asfaltati, passaggi rialzati a filo dei rimorchi, attrezzi. Questo angolo fa una curva e nella lunula di terreno che si forma hanno impostato un orto molto contenuto.

Imprevisto, nell’orto c’è un fico. In buona salute.

Un uomo tiene in braccio un bambino e aspetta qualcuno camminando lentamente su e giù lungo il muro di un’officina. O forse di un’autorimessa. Ritornando in fondo alla via, al centro meccanizzato delle Poste, si vede, nel monticello con manto erboso che adorna l’ingresso, la sagoma di un uccello bidimensionale piuttosto grande, nero. Un corvo? Ha il becco giallo. Un merlo? La sagoma sarà metallica? Di legno? Di resina sintetica? Abbellisce l’ingresso al centro meccanizzato? La posizione della sagoma è incerta fra il becchettare briciole e sementi e il levarsi per la sorpresa d’essere osservata.

Foto © Dario Voltolini

Dopo aver fiancheggiato la lunga facciata abbandonata e fascinosa siamo allibiti di fronte all’uccello bidimensionale.

Il terrapieno chiude la zona. La chiude anche altrove, dove in un pezzo di terreno i giochi per i bambini sono al limite del sistema condominiale.

Chi ritenga che in certi particolari luoghi di trapasso suburbano ogni ora del giorno è uguale a ogni altra, che ogni momento non è qualitativamente distinguibile dal momento successivo – e quindi da quello precedente – passando nuovamente accanto al fico e poi salendo verso una via dal nome di mare, sarebbe smentito dal fatto che l’uomo con il bambino in braccio adesso è scomparso.

Durante gli anni dell’università passavo di qui frequentemente perché andavo a studiare da Morena. Solo in Settimo il luogo si condensava attorno a una piazza, prima di raggiungerla infatti il paesaggio scivolava via da tutte le parti. Parlavamo un sacco, studiavamo niente. Eppure lei ha imparato tutto. Al ritorno, contro ogni ragionevolezza, la condensazione del luogo non aveva luogo, sebbene si trattasse – il punto di arrivo, intendo – del quartiere dove da sempre abitavo. Lo conoscevo palmo a palmo, ma forse proprio per questo non mi veniva incontro vestito di novità e presenza.

(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).

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