Ci sono certi cortili magari con pergolato molto pacifici e intimi alle cui spalle a una certa distanza la montagna della discarica si alza come un’onda sulla cui cresta simili a insetti divulgati da documentari scientifici si muovono circospetti i mezzi della nettezza urbana.
Tra Borgaro e Torino da qualche parte di qui o di là il luogo si chiama Villaretto e un orologio bianco sul fianco magro di un campanile fatto di mattoni scuri osserva proprio nella vostra direzione. Seguendo il suo richiamo, a una curva stretta come quelle dei borghi isolati e silenziosi nelle campagne, costeggiamo un edificio scolastico a cui subito viene voglia di procurare amici e compagni architettonici, dislocando nei suoi paraggi costruzioni prese altrove ma fatte della stessa qualità, naufraghi.
Sorprende la presenza di un lago che si chiama Isola del pescatore. In automobile se ne possono percorrere le sponde, una volta superato l’ingresso. Una freccia indica a destra, verso un bar che non si vede perché sta dall’altra parte del lago. Vi si possono acquistare articoli per la pesca. Alcuni pescatori si stanno raccontando storie di pesca: la cosa è talmente poco sorprendente che sembra di essere in una finzione. Teatro?
Meglio andare a piedi, perché nonostante da qualche parte – forse dal cielo – giunga un brusio di città e motori molto ovattato, il silenzio dei pescatori intima rispetto. Eppure loro stessi sono arrivati in automobile. Ma quando frustano l’aria con le canne e le lenze fanno quel soffio, anche i pescatori che pescano discorrendo con altri pescatori o con amici, tacciono.
“Cosa si pesca?” domando. “Tutto”, mi dice un signore magro vestito con quei vestiti verdi dei pescatori. Una risposta o tautologica o folle. Barracuda, pesci spada, celacanti? Murene? Calamari? No, il significato di “tutto” è: “tutto quello che ha senso aspettarsi da un lago esattamente come questo, cioè da questo lago qui”. Nel senso di: “niente di meno”. E un uomo su una barca sta in centro al lago e pesca.
Se si entra in Torino dalla parte del canile e si sale la rampa che immette nel corso, sicuramente non si noterà, sulla destra, nella siepe folta che prosegue la superficie di un muro, una porta nascosta dal fogliame. Ma a un tratto la porta si è aperta, come una porta di foglie in una parete di foglie, e un uomo è uscito, accompagnando un secondo uomo che portava a mano la bici.
Il campo da rugby può essere trasformato in campo da calcio montando le porte e ridisegnando i limiti. Qui, in un momento che mi è impossibile circostanziare, ho rubato palla a uno molto più grande di me che aveva un passato da calciatore. Ho finto di lasciarmi dribblare, ma ho allungato una gamba dietro e col tacco gli ho soffiato il pallone. Me ne sono andato verso la porta, ma vedendo che stavano per contrastarmi almeno due avversari, ho calciato con la punta, sgraziatamente, mirando una finestrella lontana dal portiere, rasente il palo. Ma quello, con un tuffo, si è allungato e l’ha presa. Era una partitella, ma giocavano anche mio padre e il suo fratello più giovane.
(“I confini di Torino” sono stati scritti per il supplemento settimanale Torinosette della Stampa, uno alla settimana. Poi i testi sono stati raccolti in volume dall’editore Quiritta [Roma, 2003], con l’aggiunta di un commento in corsivo a ciascun pezzo. Ora sono corredati con fotografie dei luoghi in questione scattate dopo vent’anni dall’autore dei testi).