Rivista di luoghi, storie e altro

Cartoline che avremmo voluto ricevere

Sono cartoline dalla Statale 38 quelle che Francesco Osti ci spedisce. Prose poetiche nate da esplorazioni in provincia, seguendo quel filo di Arianna della vecchia Statale, che quasi ovunque è stata sostituita dalla moderna Superstrada che toglie traffico ai paesi, ma anche poesia al viaggiare. E invece, se uno si mette per strada su questa arteria più lenta, quasi stanca, e a passo d’uomo si ferma ad osservare, trova questo mondo qui. «Mi ha colpito soprattutto come certi luoghi siano come cristallizzati, come se vivessero un tempo antico, quello degli anni Sessanta e Settanta che io non ho vissuto o di cui ho assaporato solo la coda, quando ero piccolo. Sono paesi che nei testi cito solo con le loro iniziali (G. – G. – T.) perché il nome sarebbe fuorviante, non serve: farebbe subito pensare a qualcosa di definito, mentre io volevo restare vago. Questi paesi mi hanno generato delle impressioni un po’ crepuscolari, come se fossero in una fase di stallo. Fase che però è solo apparente, perché quello che a prima vista pare fermo invece è un pacifico formicaio che vive con i suoi tempi» spiega Osti. Tempi di artigiani e botteghe, bar con il neon e tavoli di carte, dove si consumano amari senza ghiaccio e grappe bianche d’alpini. «Tempi e luoghi in cui mi sono imbattuto, che ho osservato e ho cercato di rendere come fossero delle istantanee, una scarnificazione della realtà, la sua essenza. L’essenza di luoghi che meritano anche loro attenzione». Testi che sono come certe cartoline da luoghi vicini, cartoline che avremmo sempre voluto ricevere.

Transitando tra C. e P.

Non ho mai sentito prima d’ora cantare le cicale sui platani lungo la strada statale. Qualcuno mi ha parlato di un bosco di petunie dove si perdevano i rottami dell’officina. Il maestro dorme la notte estiva sull’amaca ancorata tra le colonne tortili del terrazzino. Sogna i suoi motocarri come si ricordano le persone in certi gesti congelati, cerca di ricordare se mai realmente esistiti oppure immagini lette nei tarocchi o su carte di caramelle; in ogni caso, tempera tirata con le dita sul foglio e poi, di slancio, sul piano della scrivania. Nella notte di grafite passa un’auto estone che traina una piccola roulotte di lamiera: verso il mare, verso ciò che è interpretabile del sogno. 

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Attività 

a Michele

Di là dalla barista – la donna che sente scivolata via la giovinezza ed è nervosa ad ogni richiesta – c’è il nonno dallo sguardo timido-curioso, l’angolista nelle braccia conserte, il giornale e il mazzo di carte; un calice di frizzantino che spumeggia di boccacce il giovane stempiato. C’è un busto di gesso sullo sgabello. Fuori è un’avventura, fra due braccia di pallido sole, oltre la lingua insabbiata della strada sul mio piazzale ingombro di rottami.

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Albergo Stelvio, cartolina

La biga romena porta in patria gli scarti della macellazione; da ore un odore di fosso e ammonio ristagna nell’aria, ma credo non dipenda da alcuna meccanica o sentimento. Sono felice di scrivere questa cartolina, di godere la panoramica veranda, mentre sorseggio la cheta nevrastenia del commesso viaggiatore che chiude in trionfo la sua giornata. Dove il mio vicino di seggiola, in un grido, ordina una liquirizia: un bicchiere della sua anima nera.    

Transitando da G. verso G.

La strada è un piano inclinato, vira leggermente a sinistra, sembra liquefarsi nell’aria che sa di liquami irraggiati per i campi: pioverà prima che faccia mattino. Una presenza s’imbuca in un vicolo, scorre lungo il filo preventivamente tirato dai quattro bar verso un’oscurità di muretti merlati. Lampade ad acetilene balbettano senza suono sotto le transenne, sulla piazza della chiesa completamente sacramentata. Leggi piano: qui le case hanno mura di sasso come castelli, attraverso la finestra s’intende un corridoio inondato da una luce di crema, – leggi piano – qualcuno ora si attarda – leggi piano – bevendo alla mia salute…

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A G. nel tardo pomeriggio

Sulla curva, tra le colonnine bianche e rosse che segnano il marciapiede, alcuni lampioni già accesi d’una tinta lunare… Un ragazzino col trial sfuma all’incrocio come la scia di un meteorite, la signora si è attardata dopo il vespro al caffè pasticceria dove sui divani si sprofonda. Il muschio esala nebbia, ogni officina un’unghia orlata di nero. L’ingresso della falegnameria è una strombatura molto profonda di una serie di tavole addossate al muro, lui la sagoma abbozzata di un santo nella sua nicchia: il sibilo del tornio invade la strada e veicola la sera dai boschi come una mano che rimbocca il lenzuolo.    

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Al Cima Piazzi

“Io ti rendo il tuo dono”

Le perline hanno la tonalità del miele di castagno; mi avvolge un profumo di cipresso da un diffusore nascosto sotto la panca. Cuscini d’arabeschi come le nuvole transitate nel pomeriggio, quando mi tenevano una mano sulla testa. La pizzeria batte il ritmo rallentato della mezza stagione in una località di villeggiatura: la padrona segue col dito le date sul calendario come aprendo la strada ad una goccia sul vetro. Applausi da una televisione, mezzibusti di cervi impagliati e un’ombra, percepita tra lo stanzino e il corridoio. Fatto salvo questo chilometro di penombra, prima e dopo sulla provinciale tutto sembra inghiottito nella sera: scosto con riverenza il pizzo delle tendine come a spiare in un confessionale.

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