Quando Kaiserpanorama mi ha chiesto di fotografare un luogo e raccontarlo anche con poche parole, ho cercato tra le diapositive dell’anima più recenti e sono arrivata a Su Siccu. Ci sono arrivata perché in tempi di pandemia era diventato un rifugio ideale: per respirare un po’ di normalità. Su Siccu è un porticciolo turistico di Cagliari, tra la basilica di Bonaria e i due moli, quello di ponente e quello di levante. Ma è anche qualcosa in più di questo.
Il mare davanti, la città dietro. Uno spazio sicuro per gli abitanti e per il loro disincanto. Una fila di vita, al confine. Su Siccu è lungomare, passeggiata, porto. O waterfront, come lo chiamano adesso. È dove si corre, si pesca, si legge. È un luogo sospeso, per esistenze zeppe di rughe o pronte a sbocciare.
Spalle curve, passo debole, occhi non più giovani che fissano terra: c’è chi a Su Siccu va per respirare il sale e lasciare andare l’amaro. Capelli al vento, broncio tenero, occhietti curiosi che cercano il sereno: c’è chi a Su Siccu va per scoprire il mondo puro e cangiante. Qui c’è chi aspetta per ore: che un amo venga denudato nell’acqua blu che resiste, nonostante la culla di àncore; che il cielo diventi un fluttuare lento di ali rosa; che il sole colori di ocra le carnagioni più morbide e bianche, anche quelle distese sul cemento arido. Qui è un alternarsi di malinconie personali e bizzarrie collettive. Il silenzio di solitudini che cercano il mare col cuore si mischia all’inno d’Italia che rimbomba oltre le grate, davanti a una folla di finti patrioti che si sentono tali se va bene ogni quattro anni, se la Nazionale arriva in finale. Qui, sotto il sole di mezzogiorno, una donna si salva con la settimana enigmistica e un uomo protegge un sottomarino nero; una nave parte e un pescatore resta; un muro racconta e due panchine aspettano. Su Siccu si svela come l’involucro lampante di un pezzo d’isola dove, come cantava Franco Battiato, “l’aria delle cose diventa irreale”.
Foto © Monica Porcu