Il motore della Lancia ronza sommesso, l’acqua è ferma e torbida, color fango. Avanziamo in un dedalo di canali, tra piccole e grandi isole verdi, intricata vegetazione, voli di uccelli, rami che sfiorano la superficie. La barca scivola leggera, vira improvvisa, sfiora minuscoli moli di legno. La scia lambisce piccoli chalet, tra giardini arruffati che degradano verso lo specchio fermo del fiume, barbecue fumanti e voci di bambini. Nella gita domenicale lontano dal caos urbano e dal traffico incessante di Baires ci perdiamo nel labirinto del Tigre, l’imponente delta del Paranà.
Bisogna conoscerlo bene, questo complicato gioco di acque e terra, di fiumi, torrenti e canali, per non perdersi. In un tempo più sereno, non lontano da Punta Chica, la madama delle lettere argentine, Victoria Ocampo riceveva in villa intellettuali europei e giovanissimi aspiranti scrittori del Rio de La Plata. In un tempo di speranze e tempeste, nei remoti anni Cinquanta, Rodolfo Walsh si isolava nel suo minuscolo chalet sul Rìo Carapachay, per scrivere, bere, discutere e amare. Una targa fissata al muro di cinta ricorda he su questa zolla di terra il giornalista e scrittore ucciso dagli squadroni della morte practicò el peligroso oficio de escribir.
E la casa di Haroldo Conti, poco lontano, sembra una fragile scialuppa di legno oltre la fitta cortina dei salici. Poche stanze modeste: quadri libri, foto alle pareti, la cucina angusta, la disordinata scrivania dello scrittore. Così Eduardo Galeano racconta il sequestro di Haroldo: “oggi è una settimana che lo hanno trascinato via da casa. Gli hanno bendato gli occhi, l’hanno picchiato e se lo sono portato via. Hanno lasciato la casa vuota. Hanno rubato tutto, anche le coperte. I giornali non pubblicano una riga sul sequestro di uno dei più grandi romanzieri argentini. Le radio non dicono nulla. Marta stava a casa, quando è successo. Anche a le hanno bendato gli occhi. Le hanno permesso di salutarlo, e lei è rimasta sola, con il sapore del sangue sulle labbra. Oggi è una settimana, e non so più come dirgli che gli voglio bene, e che mi dispiace di non averglielo mai detto per pudore o per pigrizia.”
Memoria, ancora. La follia della dittatura ha sporcato anche questo luogo. Negli anni Settanta gli aguzzini riuscirono a trasformare una di queste isolette in un penitenziario clandestino. Lo racconta un testimone: “ ci misero nel vano di sotto di una casa a palafitta, chiuso con mattoni per trasformarlo in una stanza. Non aveva ventilazione, e per il caldo molti svenivano. Allora aprirono una porta. A Un certo punto ci fu una gazzarra tremenda perché passò un vicino e ci vide. Non abbiamo mai saputo cosa accadde a quell’uomo, ma abbiamo sentito grida e spari…”
Ma oggi no, oggi siamo ospiti spensierati di Hugo, che nonostante i suoi occhi azzurri e il cognomi tedesco, si vanta di cucinare l’asado più autentico della costa. Nel giardino dietro la casetta si apparecchia una lunga tavola di legno, si dispongono piatti bicchieri scompagnati e bottiglie di vino. Sul fuoco lento e sulla brace accesa cuoce la carne rosea, salsicce e interiora color cioccolato, insieme al rosso dei pomodori e al giallo intenso delle patate dolci. I nostri nomi sono italiani, tedeschi, inglesi, spagnoli. In questa terra meticcia c’è posto per tutti. La memoria, in questa domenica tregua, è costretta al silenzio.
Il prato è piccolo e curato. Ma il folto della vegetazione preme minaccioso contro le assi consumate della casetta di legno. Un intrico di rami che si perdono in alto, contro il sole. Fusti pesanti, tronchi contorti, liane robuste, foglie grasse e verdissime. E su tutto, il ronzìo degli insetti, incessante. Il richiamo degli uccelli, i rumori nel folto. “Bisogna lavorarci, sai?”, dice Hugo. Ogni benedetta settimana bisogna tagliare, pulire, sfrondare, lottare contro la foresta. Se non fai così, se non lavori di machete e di zappa, questa natura selvaggia ci mette un minuto a mangiarsi il giardino, la casa e il molo. Per ricongiungersi all’acqua che scorre.
E’ come l’Argentina, questo bosco. Spendi anni, decenni e generazioni a negare il sud, a rivendicare negli annali e nei libri e nelle scartoffie l’origine europea di questa terra, a definirti bianco e figlio di bianchi, orgoglioso occidentale erede delle grandi città del nord. Combatti ogni giorno contro l’origine e il destino di questa terra. Non hanno fatto così i cacciatori di indigeni, ai tempi della frontiera? Non hanno fatto così anche i generali della dittatura, che sognavano impeccabili parate militari, ordinate formazioni di cadetti, uniformi immacolate, mentre sguazzavano nelle cantine e nei garage della tortura, con le mani affondate nel sangue?
Ma alla fine è inutile: la vita vera sconfigge la leggenda e l’intrico americano preme vittorioso contro la tua linda casetta e contro la tua aristocratica presunzione occidentale. Il sud alla fine vince, come deve essere. E l’Argentina si rassegna figlia dell’America Latina, come deve essere. Accaldato, sudato per la fatica, Hugo abbraccia il possente tronco di una ceiba e ride forte, con i suoi occhi azzurri spalancati.
(Questo testo è un estratto del libro “Cronache Infedeli”, Voland Edizioni, 2017. Ringraziamo l’autore e la casa editrice per la gentile concessione).