La nostra sistemazione era perfetta. Due camere, o piuttosto due budelli dal soffitto a volta, imbiancati a calce, che davano sul cortile, dove un melograno e un ciuffo di garofanini lottavano contro le prime gelate. I muri ospitavano nicchie per le icone, il samovar e le lampade a petrolio. Nella legnaia minuscola che divideva le nostre camere abitavano ratti color di luna. Ognuno di noi aveva a disposizione un tavolo, una sedia, un piccolo fornello di latta goffrato come una cialda. L’affitto era pagato per sei mesi; eravamo a posto. Thierry preparava le sue tele; io avevo portato dal bazar una risma di carta bianca e ripulito la macchina da scrivere. Mai il lavoro è così seducente come quando lo si sta per cominciare; dunque lo si piantava là e si andava a scoprire la città. Larga, terrosa, all’abbandono, essa pagava le sue passate disgrazie. Tolte le arterie principali, era un dedalo di viuzze delimitate da muri di terra rossiccia che finivano su piazzette ombreggiate da un platano, sotto il quale i vecchi venivano a sera per fumare e chiacchierare. Una folla rozza e sonnacchiosa sfilava nelle strade del bazar: mantelli rattoppati, lugubri berretti, soldati color terra e donne sepolte nei loro chador a fiori. Carrozze silenziose, branchi di asini, di pecore, di tacchini scivolavano attraverso le piazze. Sulle soglie delle botteghe fumavano i samovar. I nibbi giravano al largo dei tetti, in un cielo sempre grigio. I pioppi perdevano le ultime foglie. Era patibolare, ma affascinante.
Ecco la situazione della città. Ottanta chilometri a nord: la frontiera russa. Una volta alla settimana, un treno di quattro vagoni lascia Tabriz per raggiungere Giulia, e quindi Erevan, capitale dell’Armenia sovietica. Il treno è quasi sempre vuoto. Dai contrafforti dell’Ararat alle spiagge deserte del Caspio la frontiera presenta una linea continua di filo spinato, accompagnato da una striscia di sabbia fine su cui le orme dei fuggitivi sono immediatamente individuate. Eppure non è davvero ermetica; e le comparse lasciate qui dai sovietici passano e ripassano discretamente. Per loro, quell’impressionante dispositivo d’allarme rimane silenzioso. Come dice giustamente un proverbio locale: «La sciabola non taglia il proprio fodero». Così, i russi sono perfettamente informati di ciò che si trama in città, e Radio Baku si prende ogni tanto la libertà di interrompere un programma di musica caucasica per annunciare il risultato delle elezioni di Tabriz, due settimane prima dello scrutinio.
Trecento chilometri a ovest, la calotta di ghiaccio dell’Ararat domina un mare di montagne blu che scendono come onde verso la Russia, la Turchia e l’Iran. Ed è là, nel cuore dell’antica Armenia, che Noè, in un gorgoglio di acque ostili, fece approdare l’arca da cui siamo tutti usciti. Il suo passaggio ha lasciato delle tracce, e la prima borgata del versante russo si chiama Naxçivan: in antico armeno, “le genti della nave”. Lontano a sud, oltre i canneti dell’immenso Lago d’Urmia, le alte valli e le creste del Kurdistan chiudono l’orizzonte. È una regione magnifica e poco frequentata, di cui l’esercito iraniano controlla praticamente tutti gli accessi. Le tribù di allevatori che vi abitano hanno in città una reputazione di brigantaggio e rapine, solida quanto ingiustificata. Il fatto che i tabrizzini li detestino non impedisce ai curdi di scendere ogni tanto in città, bardati di cartucciere, e con avidi sorrisi per le enormi bisbocce di volatili e vodka che li attendono. Verso est, una strada di terra scavalca il passo del Ghibli, a più di tremila metri, e si allontana verso Teheran. Al di là di Miyaneh, traversando il fiume Kezel-Owzen sulle cui rive Israele in cattività “piangeva ricordandosi di Sion”, si cambia di mondo e di lingua. Si lascia il duro paese di razza turca per le terre millenarie e i paesaggi soleggiati dell’altopiano dell’Iran. A eccezione di questa strada spesso chiusa per la neve o i fanghi di primavera, e dell’autobus verde mandorla che impiega a volte quattro giorni per raggiungere Teheran, niente collega la città al mondo esterno. Nella sua culla di pioppi, di terra rossiccia e di vento, essa vive per sé, a parte.
(Questo testo è un estratto del libro “La polvere del mondo” di Nicolas Bouvier, © Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2020. Ringraziamo la casa editrice per la gentile concessione)