Sia la tragica crisi economica scatenatasi nel 2009 (crisi del debito ellenico), e dichiarata formalmente conclusa a forza di sacrifici immani soltanto lo scorso mese di agosto, che la pandemia del covid hanno lasciato pesanti segni in città. Delle duecentomila attività che avevano chiuso i battenti durante i momenti più atroci delle pesanti austerità imposte alla popolazione, e successivamente dei lockdown sanitari, molte hanno riaperto trasformandosi e investendo nella risorsa più a portata di mano: il turismo. I percorsi escursionistici obbligati e le conseguenze dei crolli finanziari hanno ulteriormente trasformato non poche vie di Atene in gallerie di orrori (la Pandrossou che va da Plaka a Monastiraki, per esempio, che trabocca di busti di filosofi e blasfeme statuette di deità mitologiche di alabastro o di plastica) e suggestive fughe di vicoli e scale (il quartiere di Anafiotika arroccato sotto il Partenone) in una sequela di tavolini di taverne in cui incalzanti buttadentro cercano di trascinare i passanti.
Soltanto le fugaci e sublimi visioni dell’Acropoli che balenano a tratti tra un tendone di emporio e una cascata di sandali “greci” riescono a far dimenticare la riduzione in souvenir e la “riproducibilità tecnica” di secoli di storia, arte e civiltà. Abbandonare quei territori per immergersi nella meno folkloristica quotidianità resta il modo migliore per cercare di comprendere il senso dei luoghi e della città. La pur semplice e apparentemente insignificante successione di negozi diversi tra loro, motivata dalla scontata necessità di differenziare l’offerta per andare incontro alle esigenze di un pubblico variegato e non omologato, oltre a testimoniare di una confortante ripresa monetaria ed esistenziale, sarà un respirò di sollievo dopo la full immersion in sedicenti mercati delle pulci e overdose di fake (icone, elmi, marmi sintetici, cariatidi, pepli e kouroi). La via Evripidou resiste strenuamente all’assalto del kitsch e conduce, variando la propria natura a seconda degli isolati (caffè, gastronomie, spezie, casalinghi e ferramenta, piante, fiori e sementi, qualche cinese che sconfina dal territorio di Chinatown), lontano dalle traiettorie immolate allo struscio turistico verso una meta la cui natura da sola è sufficiente a scoraggiare il pubblico schizzinoso o assuefatto al caratteristico da cartolina. Le guide che lo riportano lo citano come Mercato centrale anche se in città è noto come Dimotiki Agora (Mercato comunale) o Varvakeios Agora (Mercato intitolato a Varvakis). Ioannis Leontides, detto Varvakis per la sua somiglianza a un omonimo falco caratteristico della sua isola natia, fu un imprenditore e rivoluzionario greco naturalizzato russo (Ivan Andreevič Varvatsi), vissuto tra Sette e Ottocento, passato alla storia, tra l’altro, per aver combattuto nella guerra russo-turca (1768-1774) e nella rivoluzione greca (1824), per essere entrato nell’area di influenza dell’imperatrice russa Caterina II e aver ideato un sistema di trasporto del caviale che lo mantenesse fresco durante le lunghe giornate di navigazione.
Pienamente meritata dunque la dedica di un mercato alimentare, oltre al fatto che era stato finanziatore di un liceo che aveva sede (bombardato nel 1944 e definitivamente abbattuto nel 1956) in una piazza adiacente. L’edificio del mercato fu costruito tra il 1876 e il 1886, dopo il crollo della vecchia struttura mercatile di Monastiraki devastata da un incendio. Un primo restauro risale agli anni tra il 1979 e il 1996, seguito da un risanamento parallelo alle Olimpiadi del 2004 e da ulteriori lavori di ristrutturazione attualmente in corso che, hanno assicurato, non ne mineranno la portata storica. Oggi ospita nelle sue navate sotto un tetto a capanna i banchi di carne e pesce oltre a una ridotta serie di taverne e ouzerie.
Ideali per uno spuntino, un pranzo veloce o semplicemente per trasformare la spesa in un’occasione di socializzazione e convivialità. Già si è detto che non fa per gli schifiltosi, i delicati e, aggiungo adesso, i vegetariani-vegani. Le decine di banchi, ora in (parziale) ossequio alle normative igieniche europee dotati di frigorifero, mettono in impietosa mostra intere carcasse di animali, sequenze da reperti anatomici di organi (cuori, fegati, intestini), teste di buoi, maiali, capretti. Un insieme splatter di trionfo della carne esposta nella sua più autentica crudezza senza sconti o reticenze.
La visione delle teste di maiale esposte in bella vista con le espressioni grottesche intorpidite dal rigor mortis mi hanno ricordato i mascheroni teatrali e le maschere mortuarie che avevo rimirato il giorno precedente al Museo archeologico. Considerazione forse irriverente, ma l’associazione era stata immediata. Morte, esibizione, spettacolo, simulacri, consumo e gusto. Un insieme di sacro e profano, realtà e rappresentazione, immortalizzazione e caducità della vita, teatro, museo e mercato.
Analogo discorso, pur se leggermente meno truce, riguarda il settore riservato al pesce, più vicino a modalità internazionali di esposizione della merce, anche se si distingue per soluzioni estetiche non convenzionali. Colpisce la stragrande abbondanza e varietà di pesci freschissimi; si parla di un consumo che va dalle 5 alle 10 tonnellate e che accontenta tra i 3000 e i 5000 clienti al giorno. Qui fanno la spesa grandi chef, proprietari di taverne, ordinarie massaie, ricchi e poveri. Ciascuno trova qualcosa per sé e per la propria categoria di appartenenza sociale o censoriale.
A fare da colonna sonora le immancabili grida dei venditori-imbonitori che talora confluiscono in una specie di coro quando di banco in banco si coordinano in un crescendo collettivo. Tutti fumano indisturbati e molte regole sanitarie restano fuori senza che nessuno abbia da eccepire. Di campata in campata si procede su pavimenti resi sdrucciolosi dal ghiaccio che si scioglie, dai residui di pesce che scivolano dagli scanni, e la ricchezza dell’offerta complica l’eventuale scelta. Le sinfonie olfattive si scatenano e crescono, inevitabilmente, con il variare delle stagioni e l’arrivo delle calure estive. La clientela è nella stragrande maggioranza di habitué. Ogni ateniese ha il suo macellaio o pescivendolo di fiducia e procede a colpo sicuro, a differenza dello straniero stordito da tanta dovizia. Qua e là si insinua un mini banchetto, forse abusivo o non del tutto omologato, di venditori di aglio: teste di grandi dimensioni offerte a costi irrisori. Ai tavolini dei locali fervono conversazioni e dibattiti, assaggi e bevute. Non opera più nelle ore notturne, ma aprendo all’alba ancora raccoglie in alcune taverne il pubblico che, dopo una notte di movida, non disdegna di smaltire la sbornia con una zuppa di zampa di maiale o di frattaglie d’agnello. Le trattazioni continuano fino al pomeriggio, ma il momento ideale per una visita è la mattina, quando l’assortimento è al massimo della sua copiosità e i banchi traboccano di ogni ben di Dio.
Frutta, verdura e spezie trovano posto al di fuori della pur enorme struttura coperta, tra empori e bric-a-brac, e sono meno stupefacenti. Chi abbia praticato i mercati turchi o magrebini, per citare soltanto un paio di esempi alternativi, non si emozionerà di fronte alla pur considerevole offerta di olive, formaggi, frutta secca, droghe ed erbe aromatiche. Tutte le vie circostanti pullulano di persone e offrono un’ulteriore considerevole serie di negozi alimentari, già più intenzionalmente modellati sulla volontà di piacere e impressionare, charcuterie (così si autodefiniscono), drogherie, delikatessen. Offrono formaggi, insaccati, salsicce e pastourma (una variante di pastrami speziata al cumino). Meno spontanei nelle strutture, più disegnati a tavolino, igienicamente irreprensibili e di conseguenza più dispendiosi.
Una trattoria, Diporto (in greco significa porta a due battenti), ancora incredibilmente rimasta ruspante e fedele alle proprie tradizioni nelle immediate vicinanze del mercato nonostante il passare degli anni e l’incalzare dei costumi, merita attenzione. Prima che le cose cambino e che si adegui alle esigenze globalizzanti vale la pena di scendere i gradini che all’angolo tra le vie Theatrou e Sokratous immettono nella cantina in cui un anziano cuoco e il suo giovane collaboratore preparano pochi piatti di ottima qualità. Non esiste insegna né menu. Ci si siede, se c’è posto, condividendo il tavolo con chi capita e si mangia ciò che passa il convento: zuppa di ceci, pesce azzurro, verdure stufate, insalata greca. Il seminterrato ospita un angolo cucina (dalle cui pentole si diffonde un profumo irresistibile), pochi tavoli coperti da tela cerata, sedie impagliate e grandi botti da cui viene spillato il vino Retsina servito nei tradizionali bricchi di alluminio. Chi ha mancato il grezzo incanto notturno di una soupe à l’oignon alle Halles di Parigi, da tempo abbattute e dimenticate, potrà rifarsi qui, ma non perda tempo: la gentrificazione e i filosofi di plastica incombono.
(Questo testo è apparso per la prima volta sul blog Mercati del mondo. Ringraziamo Gian Piero Piretto per la gentile concessione).