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I mercati dell’ex Unione Sovietica

Pane, frutta, verdura, e odore di sangue rappreso, scuro e mieloso sul cemento crepato. Profumo di salamoia nell’aria, vette inesplorate di sottaceti accatastati in asiatici equilibri, e poi ancora sguardi di pollo racchiusi in prigioni di ruggine e polvere, pensieri di maiale tagliati da accette poco precise, e gentili braccia adipose che si protendono nell’offerta di salumi, confetture, frutta secca che ti si incastra tra i denti. E formaggi non pastorizzati che vanno mangiati lo stesso perché sennò che si vive a fare. Per giustificare il suo vegetarianismo davanti a una sbigottita tavolata di quasi-amici, la giovane e schizofrenica protagonista de Il raggio verde di Éric Rohmer afferma che in Occidente si è ormai quasi del tutto perso il contatto con l’origine del cibo, giacché tutto è venduto e consumato in informi e asettici imballaggi, involucri sintetici che separano l’uomo dalla memoria di ciò di cui egli si nutre. In un mercato invece la contiguità della catena alimentare si palesa in tutto il suo crudo splendore, tra urla di venditori e clienti e il siero che trasuda da qualche interiora di agnello lasciata a sgocciolare sul banco di pietra. Eppure la morsa modernizzatrice ha ormai da tempo preso di mira anche i mercati alimentari, ultimo baluardo di un mondo in via d’estinzione. E se fino agli anni Novanta era prevalentemente l’Occidente ad essere devastato da supermercati e grandi magazzini, oggi, proprio quando gli Stati Uniti dei Walmart tentano una timida riscoperta del mercato come istituzione urbana, i bazar d’oltrecortina svaniscono nel nulla contemporaneo, seguendo il destino di tanti monumenti di epoca sovietica ridotti in macerie.

Con la lenta scomparsa dei mercati dell’ex URSS non si perde soltanto un imprescindibile punto di riferimento gastronomico-culturale della vita cittadina, ma un vero e proprio locus amoenus sociale e antropologico, un ricettacolo di lingue e volti delle oltre duecento etnie dell’Unione Sovietica: ucraini, tartari, tagiki, georgiani, osseti, russi, armeni, cumicchi e calmucchi, abcasi e abazini, avári e akhvaki, moldavi e mordovini, coreani dell’Asia Centrale e tedeschi del Volga, nivchi di Sakhalin, evenki della Tundra e coriacchi della Kamčatka. Settanta anni di navigazione comune verso una meta vaga e sfuggente, indefinita come le atmosfere e le geografie sensoriali dei suoi mercati, sospesi in un limbo tra Oriente, Europa e Arabia.

Mercato ittico di Astrachan, Russia (Foto © Gianluca Pardelli)

Foto © Gianluca Pardelli

www.soviettours.com

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