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Mercato del disertore Tbilisi

Il mercato del disertore

Dezertirebi Bazroba, Mercato del Disertore: un nome piuttosto curioso per un mercato. Risale agli anni degli scontri per l’autonomia in cui la Georgia, approfittando della Rivoluzione bolscevica del 1917, cercò e ottenne, pur se per breve periodo, l’indipendenza dall’Impero russo che l’aveva dominata e russificata per più di un secolo. La Repubblica Democratica di Georgia resistette dal 1918 al 1921, anno in cui l’armata rossa invase il Paese e, dopo una breve guerra, l’occupò. Tbilisi in quell’intervallo di anni divenne una sorta di città del retroterra, un rifugio per vagabondi, fuggitivi e bohémien. Tra questi anche artisti e intellettuali russi che scappavano dalla guerra civile e che si unirono ai colleghi che, fin dagli anni Dieci, avevano dato vita a correnti di avanguardia di notevole portata (dadaismo, futurismo, cubismo) tra Tiflis e Kutaisi. Durante il conflitto che portò all’occupazione molti soldati russi disertarono e, per sopravvivere, presero a vendere le sole cose che possedevano, armi e divise, in una zona adiacente alla stazione ferroviaria dove si stava sviluppando un mercato delle pulci che divenne e restò poi convenzionalmente noto come “il mercato del disertore”. La nascita dell’Unione Sovietica come Stato, nel 1922, stabilizzò l’influenza bolscevica anche in Georgia, i disertori scomparvero, gli artisti vennero progressivamente omologati alle nuove regole estetiche per essere poi definitivamente liquidati con le atroci purghe staliniane degli anni Trenta che non risparmiarono neppure i compatrioti del dittatore. Triste e curioso è dover verificare che, a cent’anni di distanza, la Georgia si sia ricolmata di “disertori” russi in fuga dalla guerra in Ucraina e dai reclutamenti selvaggi putiniani. Accanto a questi compaiono i russi “ricchi” che, con l’arroganza che li contraddistingue, arrivano a frotte nelle località sciistiche e balneari, filo governativi, benaccetti al regime, mal tollerati dalla popolazione. Ad accoglierli, su moltissimi muri, finestre e vetrine di negozi, graffiti di sostegno all’Ucraina, simboli giallo-azzurri e scritte anti russe.

Foto © Gian Piero Piretto

Il mercato ha continuato a esistere nei decenni e si è sviluppato. La hall centrale è stata restaurata all’inizio degli anni Duemila, ma oggi già porta vistosi segni di degrado. Sotto le sue arcate parcheggiano i camion carichi di frutta e verdura e il commercio là si sviluppa in forma di cassette o grandi carichi. I dettaglianti sono sparsi in tutta la zona circostante, piazza, vie adiacenti, parcheggi, in un colorito caos di centinaia di banchetti, venditrici e venditori, grida, schiamazzi, merci. All’aria aperta, sotto tettorie improvvisate e in un settore coperto che si sviluppa su due piani. Il luogo non è per acquirenti schizzinosi. Le regole igieniche di confezionamento e conservazione non corrispondono affatto a quelle a cui siamo abituati, ma questo è anche parte dell’attrazione. Come ovunque in città pacifici cani e gatti randagi dormono indifferenti sui marciapiedi o sgattaiolano indisturbati, coccolati dai passanti e controllati dal comune.

Foto © Gian Piero Piretto

A vendere sono in maggioranza donne, tutte di una certa età. Immergersi tra i banchi equivale a entrare in una dimensione diversa dal resto della città, dove sono i giovani a dominare. Qui, tra le vecchie generazioni, ancora c’è chi fa ricorso al russo come lingua franca per comunicare con gli stranieri. I giovani, invece, parlano tutti inglese, fluente e disinvolto, ed evitano la lingua dei conquistatori. Inevitabile, per chi come me li aveva conosciuti, è evocare i mercati colcosiani di sovietica memoria. Nelle città russe erano i mercati semi-privati dove, a prezzi notevolmente superiori rispetto ai negozi di stato, era possibile reperire prodotti alimentari freschi e di qualità, introvabili nei circuiti statali. I venditori provenivano dal Caucaso o dall’Asia Centrale. Stessi volti anziani segnati dalle rughe, stesse donne con il capo coperto da fazzoletti o sciarpe, stessa cordialità nei confronti degli acquirenti, a maggior ragione se stranieri. Non ho più riscontrato il rito dell’assaggio offerto ai passanti e ho notato nelle mani di quasi tutte le addette ai lavori l’immancabile cellulare, ma per il resto è stato come catapultarmi in una dimensione spazio-temporale dimenticata.

Foto © Gian Piero Piretto

Si cammina immersi nel profumo delle spezie o delle erbe aromatiche, entrambi i prodotti ampiamente rappresentati in rutilanti proporzioni. Particolarmente attraenti per i loro colori (e sapori) sono i banchi delle conserve, verdure in salamoia o sottaceto. Eccellenti e variopinte anche le salse (agika, tkemali), tutte preparate in casa dalle venditrici e domesticamente confezionate in bottiglie di vetro o plastica che avevano contenuto l’acqua minerale nazionale, la mitica Borjomi. Ovviamente ciascuna con una propria ricetta che la rende unica, come vale anche per i misti di spezie: chmeli suneli, utsko suneli, sale di Svaneti ecc. Gli ingredienti possono essere gli stessi, ma le proporzioni variano e il prodotto acquisisce specificità. Stesso discorso per la churkhchela, “bastone” di frutta secca imprigionata in una guaina di mosto d’uva condensato. La babushka da cui ho fatto provviste mi ha chiesto, in russo, se fossi tedesco. Alla mia risposta: “italiano”, dalle signore dei banchi adiacenti è immediatamente partito festoso il coro: “Italiano verooooo! Cutuno, Cutuno!!!”. Gloria eterna al grande Toto.

Foto © Gian Piero Piretto

I formaggi occupano un capitolo a parte: sono concentrati in uno stretto corridoio e meritano la massima attenzione. Il sulguni (noto come mozzarella georgiana) esiste in variante fresca, stagionata e affumicata. Ma il vero pezzo forte è il guda, ottenuto dal latte di pecora e maturato in un sacco di pelle (guda, appunto) dello stesso animale con il pelo rivolto all’interno, tipico delle montagne di Tusheti nel nord-est del Paese. L’economia sovietica pianificata aveva distrutto pressoché totalmente la tradizione casearia, riducendo a poche varietà la produzione di formaggio e privandola delle sue più autentiche specificità. Stessa operazione aveva colpito la vinificazione. Oggi entrambi i settori stanno lentamente recuperando le antiche tecniche forzatamente accantonate ma per fortuna non dimenticate.

Il settore carni è al coperto. Grandi tagli di varia macellazione sono esposti sui banconi di marmo, interi porcellini si allineano nei banchi frigoriferi, schiere di polli lanciano le zampe verso il cielo come in un irrigidito passo di danza. Le signore, prima di acquistare, verificano il pezzo di carne palpandolo accuratamente e poi rimettendolo al suo posto. Ci sono postazioni halal per i musulmani. Più inquietante è il reparto dei pesci: oltre a quelli esposti sui ripiani e nelle cassette nel convenzionale rigor mortis molti ancora sguazzano in anguste vasche, boccheggiando a fatica nella calca e offrendo uno spettacolo penoso in quell’acqua intorbidita dall’agonia ittica. Inseriti qua e là, tra i molteplici banchi alimentari, compaiono offerte d’altro genere, tracce di servizi e realtà per noi passate: l’arrotino, il ciabattino, con l’insegna (riparazione scarpe) disegnata a mano e vergata in cirillico, il ferramenta che offre accessori per il tritacarne a manovella. Altro particolare che mi ha riportato ai tempi sovietici è stato verificare che ancora, come unità di misura per bacche, spezie o cereali, viene usato il bicchiere a faccette che era stato onore e vanto della cultura dell’URSS. In una nicchia, lungo uno dei molti corridoi del mercato, è stato allestito un altarino con sopra oggetti e immaginette sacre, come a costituire una minuscola cappella per chi, tra una spesa e l’altra, volesse dedicare un pensiero a cose meno terrene.

(Questo testo è stato originariamente pubblicato in forma più estesa sul sito Mercati del mondo. Ringraziamo Gian Piero Piretto per la gentile concessione)

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