Si era a fine novembre o giù di lì e da Pisa stavo andando in treno verso Rimini. Non avevo particolare fretta di raggiungere la Romagna e quindi mi decisi a prendere una manciata di treni regionali. Si era anche in uno dei vari periodi tormentosi in cui la letteratura scritta da autori altrettanto tormentati sembra mitizzare il nostro rimuginare, rendendolo un po’ meno meschino e forse più sopportabile. Robe da adolescente in ritardo sui tempi, ma tant’è. Non è che io conoscessi granché l’opera di Dino Campana, ma di recente avevo ascoltato un paio di vecchie trasmissioni radiofoniche che me l’avevano reso simpatico. Simpatico lui e curioso il suo borgo natio, quella Marradi dei marroni che con tutte quelle erre mi risulta tuttora particolarmente ostica alla pronuncia.
“Un treno: si sgonfia, arriva in silenzio, è fermo; la porpora del treno morde la notte” . Da Firenze a Marradi il coltello diesel che è la ferrovia faentina affonda nel burro dell’Appennino, facendosi budello colorato di castagni, faggi e abeti (o almeno così li ha identificati il mio sguardo non certo da botanico). Per un tratto il treno è affiancato dalla statale, di gran lunga più sinuosa del binario che penetra e riemerge dalle gallerie. Dopo quella degli Allocchi, la via ferrata sibila in calando accanto al fiume Lamone fino a raggiungere Marradi, rappresentante di quella Romagna toscana che parla come Tonino Guerra ma da secoli è amministrativamente legata a Firenze.
“Pace non cerco, guerra non sopporto tranquillo e solo vo pel mondo in sogno pieno di canti soffocati” . A Marradi sono venuto per una passeggiata affatto filologica. Una sosta nella traversata appenninica, una fetta di castagnaccio se riesco a procurarmela, la pretesa presuntuosa di vedere, quasi un secolo dopo, che cosa ispirava al “mat Campena” la fuga, e il ritorno, e nuovamente la fuga. Sceso alla stazione, una delle prime cose su cui mi cade l’occhio è un’insegna che reca la scritta “Compagnia per non perire d’inedia”. Il cervello mi rimanda al “Club dei suicidi” di stevensoniana memoria, ma l’internet mi spiega che si tratta della compagnia attoriale che si esibisce nel locale Teatro degli animosi. Quanto a onomastica, a Marradi sembrano saperci fare.
“Me ne vado per le strade / strette oscure e misteriose”. Per me uomo di nascita prealpina, Marradi ha subito un’aria famigliare. Di centro decaduto dove ville e palazzi retaggio di antica nobiltà (nelle intenzioni, quanto meno) si sono gradualmente svuotati e incupiti man mano che la vita si spostava altrove. Ai tempi di Campana gli abitanti erano circa diecimila; oggi sono tremila. Percorrendo la strada che dalla stazione conduce al centro del paese, si fiancheggia la casa natale del poeta “figlio grande e infelice” di Marradi, come recita la targa consunta su una parete altrettanto malridotta. Procedo lungo una viuzza che fiancheggia, dall’alto, il fiume Lamone, e incrocio solamente una signora con una sporta della spesa. La giornata è uggiosa, feriale ed è da poco passata la stagione delle castagne: perché mai dovrei incontrare qualcuno?
“Le vele le vele le vele / Che schioccano e frustano al vento”. Tramite un ponticello pedonale varco il Lamone e mi ritrovo sul corso principale di Marradi, giustamente intitolato al poeta. Girando a destra, via Dino Campana sfocia in via Sibilla Aleramo; quello tra i due letterati fu un amore tormentato che si ricompone oggi in un amplesso d’asfalto. Ritorno sui miei passi e mi dirigo verso il centro del paese, dove in una gastronomia mi attende un piatto di ravioli ripieni di castagne. E di queste sanno molte pagine di Campana, il cui cuore un po’ folle sanguinava dei ricci che in autunno tappezzano i boschi circostanti. Senza dolore non c’è arte, forse. Senza Marradi non sarebbe stato Campana, certamente.
Foto © Alessandro Balduzzi
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