Nel 1971 Ennio Flaiano compì un viaggio di due mesi in Nord America. Ne nacque “Oceano Canada”, un documentario che già dal titolo lasciava trasparire l’intento di racchiudere l’immensità di un Paese. Benché su scala ridotta – è grande un terzo dell’Italia – rispetto al Canada, l’Islanda è altrettanto capace di trasmettere il senso di vastità. Una vastità che sa di vuoto, in cui l’uomo e il suo intervento sono marginali, in uno spazio inusuale per l’occhio europeo abituato all’urbanizzazione diffusa, ai campi arati, all’antropizzazione impenitente.
Per esplorare la natura islandese, pratica che in questi anni di successo turistico dell’isola è diventata quasi un culto pagano, c’è un santuario imprescindibile, che poi è una striscia d’asfalto, la Þjóðvegur 1. Più nota come Ring Road alle orde di turisti che negli ultimi anni la solcano in ogni stagione, la strada ad anello compie il periplo dell’isola per una lunghezza complessiva di circa 1.330 chilometri.
Percorrerla significa osservare un campionario della selvaggia bellezza islandese. Punto di partenza è Reykjavík, capitale da circa 200 mila anime che lo spirito d’avventura si lascia presto alle spalle. Al volante di un’auto a noleggio – perché l’homo islandicus se la deve sbrigare da solo, da queste parti i mezzi pubblici si vedono raramente, e lo stesso vale per il turista di passaggio – ci si lancia alla volta del cosiddetto Golden Circle. Soste obbligate sono il parco nazionale del Þingvellir, dove si riunì nel 930 l’Althing, ritenuto una delle prime assemblee parlamentari al mondo e fondamento dell’identità nazionale islandese. Al di là della sua importanza storica, questo è il luogo in cui è maggiormente visibile l’incontro-scontro tra placche nordamericana ed eurasiatica da cui si è originata l’Islanda. La tappa obbligata successiva è di valore altrettanto simbolico, seppur dal punto di vista naturalistico. Geysir è una località che prende il nome dall’omonimo soffione, da cui a sua volta proviene il termine “geyser”, derivante dal verbo islandese gjósa (“eruttare”), in un rimbalzo onomastico che ha fatto di una parola appartenente a una lingua parlata da poco più di 300 mila persone un elemento del patrimonio lessicale mondiale. I getti di vapore e acqua prodotti dall’interazione tra falde freatiche e camere magmatiche sono un chiaro segnale dell’attività imperterrita e imprevedibile di queste terre. Infine, superate le sulfuree atmosfere di Geysir, ci si dirige verso Gullfoss, la “cascata d’oro”, una doppia cateratta del fiume Hvítá.
Proseguire lungo la Ring Road significa inanellare ulteriori gioielli incastonati in un paesaggio che ricorda vagamente i mari lunari. Basti citare Reynisfjara – una distesa di sabbia nera rimestata dalla risacca contro scogliere di basalto e faraglioni – oppure la cosiddetta spiaggia dei diamanti, etichetta banale ma fedele alla realtà degli iceberg sfaccettati che staccandosi dalla lingua di ghiaccio del Breiðamerkurjökull galleggiano dalla laguna di Jökulsárlón al mare.
E questo per limitarsi alla costa meridionale del Paese, accessibile anche nell’inverno quasi artico avaro di luce e generoso di bufere. Per l’ancor più selvaggio nord, meglio attendere mesi più miti.
Foto © Alessandro Balduzzi
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