Ci si capita per diverse ragioni nella “città bianca”. Si arriva attratti dal magnetismo della musica gnawa, oppure per cercare i resti della comunità di Xendrix, o anche perché nel golden tour magrebino lei è la “perla sull’oceano”. La chiamano anche “la ben disegnata” per via della sua urbanistica progettata da Theodore Cornut, o la “città del vento” perché gli Alisei qua soffiano sempre sferzando quei bastioni rossi dove Orson Welles ambientò l’inizio del suo film Otello. Mogador, così la battezzarono i marinai portoghesi, oggi si chiama Essaouira. La sua medina mescola influenze prese in prestito da ovest e da est, da nord a sud. I vicoli della cittadella costantemente inumiditi e scalcinati dalla bruma di mare sono riempiti da tappeti appesi più o meno berberi. Poi disegni, dipinti e espressioni creative varie, perché oltre a essere la città del vento è anche la città con la vocazione artistica più evidente nel Marocco: gallerie d’arte si alternano a botteghe di mercanti, ristoratini e caffè fatti su misura per quel turismo europeo che non cerca la folla di Marrakech. Essaouira ha i colori del mare, del vento e del deserto: bianca, blu, ocra. Ma c’è qualcosa che va oltre la visione da cartolina in questo avamposto sull’Atlantico. Il porto, per esempio, che come si direbbe oggi è una vera “gita esperienziale”. Aspettare i pescherecci che rientrano osservando le donne in attesa dei mariti; cercare di capire le contrattazioni animate al mercato del pesce prima ancora del rientro delle barche; farsi largo tra i gabbiani che prepotenti attendono la pulizia delle reti. Un’esperienza molto diversa rispetto al passeggiare nei vicoli colorati della medina, e forse anche più autentica. Una di quelle sfumature sospese nel tempo che a volte incontri in Marocco, e in fondo il vero cuore antico di Essaouira era proprio questo.
Foto © Giacomo Fe
Segui Giacomo Fe su Instagram