Tirando i freni alla sua vecchia bicicletta, la babuška traballa per non perdere l’equilibrio, rallenta e smonta dal sellino. Subito controlla che nel cestino le uova non si siano rotte per la frenata, poi chiede: «Siete qui per il treno?». Fatta in quel punto, sembra una domanda senza senso: intorno al marciapiede sterrato dove si ferma ci sono solo una fila di casette di campagna, un canale con a fianco un orticello e una striscia d’erba che nessuno taglia da un po’. A guardar bene, però, in mezzo all’erba alta due binari stretti stretti affiorano in un mare di fili verdi. Sembrano quelli dei modellini, e danno l’impressione che di lì non passi nulla da un bel pezzo. Una vera e propria ferrovia da giardino. Aveva indovinato, sì, stavamo aspettando il treno, e quella villetta – uguale a tutte le altre lì vicino – era la “stazione” di Shalanky – anzi, Шаланки come indica il cartello –, un piccolo villaggio dell’Ucraina occidentale uguale a mille altri in questo lembo d’Europa. Dietro alle fronde degli alberi, il sole del primo mattino illumina le cime più tonde e basse dei Carpazi, quelle che segnano il punto in cui l’infinita pianura pannonica si infrange contro le prime propaggini di quella che fu l’ex Unione Sovietica. Dall’altro lato, invece, si apre una piana di cui non si vedono i confini. Per secoli, questa è stata una terra di confine tra l’Europa di mezzo e quella orientale. Delle vere superpotenze della storia hanno piantato il proprio vessillo tra questi campi pedemontani: l’Impero austroungarico fino al 1920, la Cecoslovacchia fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale e l’Unione Sovietica fino ai primi anni Novanta. Poi, con la dissoluzione dell’URSS, la bandiera rossa è stata ammainata e a essa si è sostituita quella gialla e blu dell’Ucraina. Oggi, di tutte queste giravolte della storia, rimangono i segni nel paesaggio urbano, sui cartelli bilingue in ungherese e ucraino, e nelle stesse voci delle persone che chiacchierano qui, sul marciapiede della stazione, con cadenza magiara sotto un cartello in cirillico. Del resto, oggi, il confine tra Ucraina e Ungheria è a meno di 15 chilometri e qui, prima di quel trattato del Trianon che disegnò grosso modo i confini dell’attuale Ungheria, erano quasi tutti ungheresi. E chi non era magiaro parlava soprattutto il ruteno, una lingua slava orientale ampiamente diffusa in quest’area. La capitale ucraina Kiev, per dire, sta a più di 800 chilometri di distanza. Più del doppio dei chilometri rispetto a quella che per secoli era stata la capitale di riferimento ai tempi dell’impero: Budapest.
Legata la bici al palo, l’anziana signora prende dal suo cestino un sacchetto pieno di uova e pomodori. Nell’altra mano, un bustone pieno di bottiglie di Coca Cola senza etichetta riempite di latte. Un vero e proprio must dei mercati balcanici o russi: di solito le mettono per terra una a fianco all’altra, vicino ai barattoli di miele o alle buste di mirtilli. Una scena che puoi vedere tra i boschi dell’Estonia così come nei mercati della Galizia ucraina o tra le montagne del Caucaso. Minuto dopo minuto, il marciapiede della piccola stazione si anima: una mamma con due figli piccoli, due agricoltori con la zappa sulla spalla, e soprattutto una decina di altre anziane babuške con sacchi, buste e cestini pieni di viveri. Tra un po’ arriva l’Antsia Kushnytska, e si vede. A un certo punto le chiacchiere delle signore vengono sovrastate da un boato fortissimo che risuona in tutta la valle. Se ci fosse il mare, sembrerebbe un transatlantico in partenza dal porto. Invece, dietro l’ultima delle villette sbuca un piccolo musetto azzurro e giallo. Si avvicina a passo d’uomo, sembra un camion ma non è un camion, veleggia letteralmente su uno strato di erba selvaggia. Mentre si avvicina, svela un improbabile design, figlio di altri tempi: un misto tra una navicella spaziale sovietica e un aspirabriciole da tavolo. È agganciato a due carrozzette che sbandano costantemente a ogni giuntura dei binari. Ci mette letteralmente due minuti a fare poco più di cinquecento metri, in bici si farebbe più in fretta. Difficile pensare che questo accrocco di ferraglia fosse un tempo il simbolo dello sviluppo di tutto un territorio.
In realtà, lo speravano gli ingegneri ungheresi che proprio qui, appena varcati i primi anni del Novecento, decisero di costruire una piccola ferrovia, seguendo le innovative tracce dell’imprenditore francese Paul Decauville. Durante l’Expo di Parigi del 1889, l’ingegner Decauville aveva illustrato a tutto il mondo il modo migliore per costruire una ferrovia in tempi brevi, di qualità e spendendo poco: una ferrovia a scartamento ridotto composta da binari prefabbricati, montabili e smontabili velocemente come si fa coi Lego. Fu così che nel 1908 i funzionari del glorioso Impero austroungarico decisero di costruire una rete di ferrovie a scartamento ridotto lungo il corso del fiume Borzhava, in quel punto ai margini del proprio impero dove la pianura si arriccia sulle prime montagne carpatiche. In questa zona selvaggia, fatta di piccoli villaggi e soprattutto di boschi infiniti, il legname era la risorsa più preziosa, e fu proprio per trasportare i grandi tronchi verso la pianura che venne costruita la ferrovia. Piccole città come Berehove e Mukačevo si contesero da subito quei piccoli binari, per poter avere un collegamento di comunicazione e commercio fondamentale per il proprio territorio. Alla fine venne scelta Berehove, e i piccoli trenini iniziarono a correre verso la cittadina di Iršava, e da lì giù verso un’altra città ai piedi dei monti: Vynohradiv, all’epoca chiamata Nagyszőlős. Vynohradiv era già allora il capoluogo di uno dei comitati – le “regioni” dell’impero – famoso per il suo distretto vinicolo. Anche il nome – sia quello ungherese che quello odierno, ucraino – significano letteralmente “grande vigneto”, e un grande vigneto si meritava di sicuro un paio di binari. Passarono gli anni, cambiarono i governi, i binari dell’impero divennero sovietici e comparve il cirillico sui tabelloni orari. In quel periodo la ferrovia divenne il mezzo con cui gli abitanti dei villaggi si spostavano per cercare lavoro, mettendoci tre ore a raggiungere la pianura invece di un giorno e mezzo. Quel piccolo treno malmesso si era ritagliato un ruolo così importante nei decenni da guadagnarsi un nome e un cognome, come fosse un’abitante del villaggio: Antsia Kushnytska.
Mentre il treno corre, le sferzate dei rami degli alberi sulle finestre aperte si alternano ritmiche agli scossoni delle curve. In alcuni punti la vegetazione è talmente selvaggia che schiaffeggia la locomotiva al suo passaggio: sembra essere il treno a scavarsi il suo percorso tra le frasche. I piccoli vomeri sotto la locomotiva lottano con le erbacce, facendo il lavoro sporco che in ogni altra ferrovia sarebbe appannaggio del diserbante. Non appena si tuffa in mezzo ai cespugli più fitti, sbuffi di foglie e polvere invadono le carrozze. Nella sua marcia sbatte, stecca, sussulta, si scuote, salta su ogni giunto dei binari. Gli scrolloni vanno avanti e indietro, frenate e ripartenze, ma anche destra e sinistra, nord, sud, ovest, est. I rumori si sovrascrivono l’uno sull’altro, le fronde, il motore, il tintinnio delle rotaie, la gente che parla sempre più forte, le porte che sbattono. Sulla seconda (e ultima) carrozza c’è il bigliettaio: il suo spazio è ricavato dietro il bagno, ci sono giusto una sedia e una mensola che fa da scrivania. Non si stacca mai dalla sua sigaretta, per tutto il viaggio, e con uno sguardo alla James Dean – ma biondo cenere – passa in carrozza a fare i biglietti alle sciure. In venti minuti abbondanti, Antsia percorre i 6 chilometri per arrivare alla stazione di Chornyi Potik, la prossima. Qui c’è un po’ meno gente, ma qualcuno sale comunque. Il trenino riparte facendo a gara con una vecchia Lada che corre sullo sterrato parallelo ai binari, poi si rituffa tra i campi. Dal finestrino si vede qualche agricoltore raccogliere a mano le proprie verdure, altri falciano l’erba, poi altre curve ed ecco Oleshnyk, l’ultima fermata prima del capolinea. La scena si ripete, sembra fatta apposta per il turista del passato, che intrappola nella sua macchina fotografica gli istanti di un’epoca che, lui, vive solo per pochi istanti.
A un certo punto, nell’intercapedine tra la prima e la seconda carrozza, sbatte la porta. Una bimba di tre, forse quattro anni si tira dietro con una mano la giovane madre, mentre con l’altra strizza il basso ventre saltellando. Le scappa, e pure forte. Con una manovra rocambolesca, la mamma imbraccia le gambe della figlia e praticamente la sporge fuori dalla porta per aiutarla a far pipì, con il treno in corsa. Una manovra da trapezista, pensata non si sa come ed eseguita incastrandosi tra la porta e l’intercapedine. L’operazione, però è davvero complessa, e tra il timore di sentirsi accarezzare le chiappette dalle frasche e la responsabilità di doverla fare in fretta, non riesce. La presa a tenaglia inizia a cedere e, spazientita, la madre riporta l’infanta dentro il mezzo battendo in ritirata verso il vagone, con la piccola che fa boccuccia, lì lì per scoppiare in lacrime. L’impresa non è riuscita, bisognerà aspettare l’arrivo. Nel frattempo, un profilo sovietico si staglia dietro ai finestrini zuppi di polvere. I palazzi scrostati dicono che siamo praticamente arrivati in città, Vynohradiv. Dopo un passaggio a livello, Antsia fa una curva secca, si infila in un tunnel di frasche suonando la tromba, che rimbomba tra le foglie. Riemergendo dall’oscurità, si spalanca di fronte un lungo piazzale sterrato, gremito di gente. È il cuore di un mercato, più precisamente il mercato del giovedì, che chiama a raccolta tutte le persone che vivono nei villaggi circostanti e che si svolge nel posto più arioso della cittadina: il piazzale della ferrovia. Il treno rallenta e strombazza, ma a nessuno pare importare, tutti conoscono la situazione a menadito. I carrelli sfiorano i banchetti improvvisati, due amiche continuano a confrontarsi sulla scelta di un maglioncino mentre praticamente la locomotiva gli sfiata addosso i freni. Alla fine, il convoglio si ferma di fronte a dei sacchi di patate e a dei barattoli di cetriolini sottaceto.
(Questo testo è un estratto del libro “Binario Est” di Marco Carlone, Bottega Errante Edizioni, 2021. Ringraziamo l’autore e la casa editrice per la gentile concessione).