In un’animata casa da tè di Mandalay, i tavolini bassi sono addossati gli uni agli altri. Seduti sugli sgabelli, gli avventori indossano sarong dai colori sgargianti. Nell’ampia sala imperversa il vociare continuo di centinaia di conversazioni. I ragazzini sudaticci si fanno largo nella ressa, urlando le ordinazioni in cucina. Portano sopra la testa le tazze di tè, da cui si alzano nubi di vapore, e l’aria è satura del profumo dei cheroot, simile all’incenso. «Charles Dickens l’hai letto?», mi domanda il birmano che mi siede accanto. «Sì, certo», gli urlo per farmi sentire. «Maupassant?». «Qualche racconto». «Sidney Sheldon?» «Ehm, sì». «Robert Louis Stevenson?». «Sì». «To’! Dottor Jekyll e Mr Hyde!». «Sì». «Secondo te di cosa parla Dottor Jekyll e Mr Hyde?».
Un amico birmano mi aveva presentato Aye Myint perché è un appassionato di libri. È alto, ha le braccia di una lunghezza spropositata e una postura curva che, più che alla posizione eretta, si conforma alla logora chaise longue su cui è solito immergersi nei libri. Mi sottopone a un fuoco di fila di domande a tema letterario, sollevando interrogativi cui non ho gli strumenti per rispondere. Ci provo lo stesso, sebbene la mia lettura del Dottor Jekyll e Mr Hyde risalga a parecchi anni fa. «Credo parli del lato oscuro che si annida in tutte le persone. L’idea di fondo è che in ognuno di noi convivano il bene e il male». «È vero!», urla lui. Si aggiusta i fondi di bottiglia che porta come occhiali e prosegue il suo interrogatorio: «Henry James?… Franz Kafka?». In Birmania incontrare un amante dei libri come Aye Myint non è poi così raro. Ovunque ci si giri si vede qualcuno che legge. Davanti al mio albergo di Mandalay, stravaccati sui sedili malconci, i guidatori di risciò in attesa erano sempre assorti nella lettura di riviste o di libri. E a volte si stringono addirittura in tre a leggere avidamente lo stesso volume. Che sia sui teloni che punteggiano i marciapiedi di Rangoon o al mercatino notturno di Mandalay, è molto facile comprare libri, sia nuovi sia usati. Lo stesso vale per le riviste: ci si può rivolgere o ai banchetti di legno che si trovano per strada o agli strilloni che ne portano in giro grossi fasci sotto il braccio e urlano i titoli attraversando case da tè e stazioni.
Una vecchia signora mi aveva raccontato che, a seguito di uno degli incendi che regolarmente colpiscono le vie riarse di Mandalay, la sua casa e tutti i suoi averi erano finiti in cenere. La cosa che le mancava di più era la biblioteca: «Ho perso tutti i miei libri, dal primo all’ultimo», mi disse. Pronunciava il titolo di un romanzo di Dickens come se mormorasse il nome di un amore perduto. «Grandi speranze», diceva mesta. Una volta, un birmano provò a fare colpo su di me citando una scena del romanzo di Emily Brontë, che lui aveva ribattezzato in modo assai tenero Cime maliziose. Mi propose di insegnargli l’inglese usando il metodo che la giovane Catherine adotta con Hareton, cioè dandogli un bacio ogni volta che azzecca una risposta. Anziché farsi scoraggiare dalla mia faccia scettica, mi consigliò di rileggere l’episodio: «Edizione Penguin, pagina 338». Dopo avermi spremuto a sufficienza sugli autori che avevo letto e sulla mia opinione, Aye Myint decise di mostrarmi la sua biblioteca. In Birmania non è facile procurarsi libri in inglese, ma lui a casa aveva raccolto oltre un migliaio di volumi, frutto di decenni di ricerche nelle librerie e nei mercatini dell’usato. Come diceva lui, si era «ritirato dal mondo» quando era poco più che ventenne e negli ultimi quarant’anni aveva vissuto recluso nella sua biblioteca, con la sola compagnia di una sorella nubile, in una casa di legno a due piani ereditata dai genitori. Dentro era buio e fresco. Il salotto era ingombro di mobili cadenti. Sul bracciolo di una vecchia sedia coloniale era poggiata una tazza da tè vuota, e le vetrinette straripavano di giornali così vecchi da avere ormai i margini arancioni e friabili. Agli angoli opposti della stanza stavano due pendole, ognuna puntata su un’ora diversa.
Aye Myint mi portò al primo piano, dove si trovava la biblioteca. Sul pavimento di legno si stendeva una spessa coltre di polvere, sulla quale si distinguevano leggere impronte, prima dalle scale allo scaffale dei libri, poi dallo scaffale a una sedia da lettura, e infine dalla sedia alle scale: un atlante del mondo di Aye Myint. I libri li custodiva all’interno di bauli; ne aprì uno apposta per me. Per scongiurare l’azione di termiti e muffa – due nemici mortali della carta nell’umido clima tropicale birmano – ogni volume era avvolto scrupolosamente in una busta di plastica. Aye Myint cominciò a tirarli fuori. «Hans Christian Andersen!», gridò passandomi una raccolta di fiabe corredate di bellissime illustrazioni. «O. Henry! Somerset Maugham! James Herbert!». Mi lanciò una logora edizione dei Topi e tuffò la testa nel baule. «Ernest Hemingway!», esclamò con in mano una copia di Per chi suona la campana, ficcata in una vecchia confezione di caffè. «To’! Hemingway!», disse. «Be’, lo sai perché si è suicidato?». Fui graziata dal dover rispondere quando Aye Myint, sempre più immerso nel baule, tirò su la testa prorompendo in un grido di trionfo: «Ah! George Orwell!». Spacchettò una vecchia copia della Fattoria degli animali, edizione Penguin, le classiche bande bianche e arancioni sulla copertina, le pagine ingiallite e leggermente umide. Mi disse che era il primo romanzo che aveva letto in inglese. «È un libro molto intelligente. E molto birmano. Sai perché?», domandò, puntando entusiasta un dito nella mia direzione. «Perché parla di maiali e di cani che governano un Paese! È quello che succede in Birmania da tanti anni». Ad Aye Myint avevo già raccontato del mio interesse per George Orwell e, in una delle pile di libri accatastate sul pavimento, lui scovò subito una copia sbrindellata di 1984. «Un altro libro molto intelligente», disse. «È meraviglioso, perché non prende di mira un regime politico in particolare. Non parla di socialismo, comunismo o autoritarismo. È un libro sul potere e sull’abuso che se ne fa. Tutto qui». Mi disse che in Birmania 1984 è all’indice, perché lo si può leggere come una critica al modo in cui è governato il Paese, e i generali al potere non apprezzano le critiche. Di conseguenza, mi avvertì, non avrei incontrato molti birmani che avevano veramente letto il romanzo. «Perché dovrebbero?», disse. «In 1984 ci vivono già, tutti i giorni».
(Questo testo è un estratto del libro Sulle tracce di George Orwell in Birmania, add Editore, 2018, traduzione di Piernicola D’Ortona e Margherita Emo. Ringraziamo la casa editrice per la gentile concessione).