S’impiegano cinque minuti scarsi a percorrere i quattrocentosettantacinque metri dal portone di Angkor Vat al tempio più interno. È stato costruito nel XII secolo, e le sue torri simboleggiano le cinque vette sacre dell’India. Il mare è rappresentato da un imponente muro di cinta. E nei cento ettari di terreno circostanti si estendono specchi d’acqua scavati a mano, grandi come laghi, inframmezzati da centinaia di grandi templi. È un’area che non ha uguali al mondo. Si pensa che all’epoca della costruzione di Angkor Vat nella città abitasse oltre un milione di persone. Questo la rende la più popolosa dell’epoca, più di Pechino e di Parigi. Il profilo di Angkor Vat è stato raffigurato su tutte le bandiere nazionali della Cambogia. Viene riprodotto sui libri di fotografie e sulle cartoline: sempre in controluce, all’alba e al tramonto. I turisti vengono a vederlo da ogni parte del mondo. E il monumento è innegabilmente di una bellezza da togliere il fiato. Più raramente si parla di come vennero costruiti i templi, di come si potessero costruire tanti edifici sontuosi con mezzi tanto primitivi e in tempi tanto rapidi. Secondo gli storici, dev’essere stata opera di una civiltà basata sulla schiavitù. Un unico, immenso campo di lavoro forzato. È facile snocciolare cifre sull’altezza, la larghezza e il tempo. Ma quante vite sono state necessarie per costruire questa meraviglia? Quanto tempo ci vuole a dimenticare il terrore e l’oppressione e vedere solo il monumento?
Lo si può riassumere in modo semplice, nella versione comunemente accettata. La guerra del Vietnam finì per destabilizzare il paese neutrale confinante, la Cambogia. Nel 1970 un golpe guidato dal generale Lon Nol depose il capo di stato, il principe Sihanouk. Poco dopo scoppiò una guerra civile tra il regime di Lon Nol, appoggiato dagli USA, e la guerriglia comunista dei cosiddetti khmer rossi. Nel 1975, in concomitanza con il ritiro degli USA dal Vietnam del Sud, cadde anche il governo cambogiano. I khmer rossi presero il potere e, guidati dall’allora sconosciuto Pol Pot, avviarono una profonda trasformazione sociale. Il paese venne ribattezzato Kampuchea Democratica e la popolazione delle città fu deportata nelle campagne e costretta a lavorare la terra. Vennero aboliti la proprietà privata, la religione e il denaro. L’obiettivo era un’utopia contadina ispirata al maoismo. In seguito si scoprì che Pol Pot era Saloth Sar, un ex insegnante che aveva studiato in Francia. Nel corso dei successivi tre anni e mezzo, a causa degli stenti, delle malattie e delle esecuzioni, morirono almeno un milione e settecentomila persone, un quinto della popolazione. Nel dicembre del 1978 il Vietnam invase la Kampuchea Democratica. Pol Pot venne destituito e s’insediò un governo filovietnamita. Subito dopo i khmer rossi ripresero la propria guerriglia dalle basi lungo il confine thailandese, deponendo definitivamente le armi solo alla morte di Pol Pot, nel 1998. Le prime elezioni democratiche, organizzate dall’ONU, si sono tenute in Cambogia nel 1993. Questa è la Storia. Pol Pot spuntato dalla giungla, dal nulla. I teschi in fila. Semplice e incomprensibile.
È il mio primo ricordo. L’interno di un passeggino. Gli adulti che camminano, fuori, tutti nella stessa direzione. Credo che il cielo sia grigio, ma potrebbe essere una ricostruzione a posteriori. Gridiamo e loro camminano e io sto per compiere tre anni. Ricordo che mi fa un po’ ridere che gridiamo “kiss”, pipì. Anche se non è proprio quella la parola, gridiamo “Kissinger”. Kissinger! Kissinger! As-sas-si-no! Kissinger! Kissinger! As-sas-si-no! Siamo a Stoccolma ed è il 17 aprile 1975. “Gli USA le hanno prese, festa in tutto il paese!” è lo slogan che ricorre. Phnom Penh è caduta ed è qui che tutto ha inizio. Ma naturalmente non è così. Come potrebbe avere origine a Stoccolma? Comincia piuttosto in una piccola biblioteca di Phnom Penh dove è custodita una raccolta di libri svedesi. Un’organizzazione umanitaria svedese e un operatore alle prime armi, della costa occidentale, magari di Göteborg. Per lo meno, è con quell’accento che dice ma questi sono fuori di testa, cazzo. Mostra un libriccino con una foto in bianco e nero. Sono fuori di testa, cazzo, dice, e il libro è tenuto insieme da un pezzo di nastro adesivo ingiallito. Il libro s’intitola La Kampuchea tra due guerre ed è stato pubblicato nella primavera del 1979. È l’entusiastica cronaca di un viaggio nella Kampuchea Democratica di Pol Pot. Gli autori sono elencati in ordine alfabetico. Forse per tradizione, oppure è una gerarchia accettabile per chi si oppone alle gerarchie. Da un punto di vista informale, però, l’ordine è diverso. Un infermiere psichiatrico, una studentessa universitaria, una giornalista e uno scrittore di fama mondiale. Tre intorno ai trent’anni, l’ultimo ha passato da poco i cinquanta. Due donne e due uomini. Una delle due donne è sposata con un cambogiano incontrato in Francia alcuni anni prima. È quella che conosce meglio i giovani intellettuali cambogiani della sinistra radicale. Suo marito è un rivoluzionario e inizialmente era distaccato alla rappresentanza diplomatica di Berlino Est. Quando i quattro svedesi attraversano la Kampuchea Democratica è probabilmente già morto, annientato dalla stessa rivoluzione per la quale si è battuto. Lei non lo sa, e neanche gli altri svedesi. Si dà per scontato che sia semplicemente troppo impegnato per incontrarli. Troppo preso dai suoi impegni di rivoluzionario. Ma naturalmente non comincia in quella biblioteca, con l’indignazione del giovane di Göteborg. Non comincia con un libro consunto i cui autori sono elencati in ordine alfabetico. Comincia da tutt’altra parte, sempre ammesso che si possa dire che un inizio c’è stato. Un evento dà origine a un altro. Ritorna, oppure ritorna in apparenza. È un cerchio. Possiamo dire che comincia con la fine della storia? Possiamo dire che comincia con l’inizio della storia? O con la sua ripresa, magari? O semplicemente con la sua continuazione?
(Questo testo è un estratto del libro “Il sorriso di Pol Pot” di Peter Fröberg Idling, edito da Iperborea, traduzione di Laura Cangemi. Ringraziamo la casa editrice per la gentile concessione)