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Le cascine abbandonate dell’Appennino modenese

Mi è capitata la ventura di nascere in Sudamerica da genitori italiani che dopo dieci anni da emigranti hanno dovuto abbandonare tutto (gli amici, la casa di proprietà e il ristorante che andava a gonfie vele) nel giro di tre giorni, a causa di una balordissima forma di guerra civile. Ce l’avevano soprattutto con quelli come noi, dal momento che la guardia del corpo del dittatore appena fuggito era composta in gran parte da italiani. “Spagnoli a casa, italiani sottoterra” era lo slogan in quel periodo di transizione. Sbarcati a Genova dopo una traversata allucinante, non si sapeva dove andare; chi avrebbe accolto una famiglia di quattro persone, con pochi soldi in tasca? Mio padre contrattò con un tassista il passaggio verso l’appennino modenese, dove mio nonno viveva da solo in una cascina di sasso che aveva costruito con le proprie mani nel 1912. Man mano che la famiglia s’ingrandiva (ha avuto sette figli) il nonno allungava la casa, che ancora adesso è chiaramente divisa in tre parti giustapposte ma armoniose. Nel dopoguerra tutti i figli se n’erano andati via, per cui lo spazio per ospitarci non mancava; in compenso mancavano la strada, l’acqua corrente e, molto spesso, anche l’elettricità.

Quella cascina, che ci ha ospitato per i primi mesi di assestamento, molti anni dopo è diventata la nostra meta per le vacanze estive, che allora duravano cinque o sei settimane o anche di più; l’estate a Modena era terribile e i condizionatori una rarità. In seguito a vari disastri familiari la casa è poi rimasta disabitata per una quindicina d’anni e quando con mio fratello e mia cognata ho provato a mettervi mano era conciata piuttosto male: c’è voluto molto tempo e molta fatica, ma adesso ci sono due appartamenti abbastanza comodi e persino una strada privata che dalla provinciale arriva fin sull’uscio. Il panorama è dolce e il silenzio senza fine. È con molto piacere e un po’ di commozione che d’estate scappo dalla città e torno in Val Rossenna per un paio di mesi, come facevo quand’ero alle elementari e alle medie: e siccome mi è sempre piaciuto camminare, ormai posso dire di conoscere piuttosto bene gran parte della valle e quasi tutte le cascine abbandonate: sono tantissime, perché qui l’emigrazione ha colpito duro. Molte strutture sono veramente belle ancora adesso – e poi io amo il sasso e il legno, gli unici materiali che potevano permettersi i contadini locali di una volta: da qualche anno mi sono messo a fotografarle e poi ho creato su Facebook una specie di rubrica intitolata Appennino abbandonato. Questa serie fotografica è composta da alcune di quelle immagini.

Ca’ di Tuccio © Gianfranco Mammi

Foto © Gianfranco Mammi

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