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Le kafane di Belgrado

Vivere a Čubura significava affermare con orgoglio di essere una čuburka, abitante del lato trasandato, sotterraneo, per alcuni lurido, del centro città che rivendica la sua anima bohémien. La nicchia della nicchia del quartiere Vračar. Alla domanda «Di dove sei?» mio padre non risponde mai «di Belgrado». Si sente un autentico čuburac. Non è ancora noto cosa significhi davvero la parola Čubura, ma secondo una ricerca esaustiva fatta dal giornalista Sveta Milutinović nel 1939, deriva dalla lingua dei rom e sta a significare un alto barile, grazie al quale era stata scoperta una sorgente d’acqua nella parte sud del quartiere, ragione per cui molti agricoltori, venendo in città, si erano trasferiti proprio qui. Uno dei mezzi di trasporto che mi portavano fuori da Čubura erano dei filobus rossi che esistono ancor oggi e distinguono Belgrado da sempre. Il 21, 29, 19: i numeri non seguono una vera logica ma tutti portano in centro. I filobus sono la metro di Belgrado, l’unico modo per muoversi per il centro della città in maniera ecosostenibile, prima che questo tema diventasse la priorità anche qui. Il cuore pulsante di Čubura sono le sue kafane, trattorie tipiche del quartiere. Alcune sono state abbattute negli ultimi anni: Kikevac, Čuburska Lipa, Sokolac. Stara Srbija, vecchia Serbia, esiste ancora ed è la sosta preferita di mio padre. Lontana dai giri turistici e anche dai caffè alla moda, questa trattoria ti accoglie con una nebbia fitta di fumo e un odore di rakija, la grappa dei Balcani, la bevanda che spesso precede i pasti o li sostituisce. Via Maksim Gor’kij delinea il confine del quartiere Čubura. Qui mio padre Milutin decise di trasformare il suo ufficio d’avvocato in una piccola kafana che chiamò Paragrafo. «Vorrei riunirmi con gli amici e i colleghi in un posto che possiamo chiamare nostro» aveva una volta spiegato a mia madre, incredula per quell’operazione che giudicava folle. Presto il Paragrafo si trasformò in un luogo di raduno soltanto degli amici di mio padre, dove si finì per offrire da bere a tutti. La rendita era pari a zero e inversamente proporzionale all’aumento del vizio di bere.

Dopo varie litigate in famiglia, Milutin aveva deciso di subaffittare il Paragrafo. Il giorno dell’inaugurazione della nuova gestione, arrivò una telefonata. «Mića, hanno sparato a tuo cugino» comunicò a mio padre il suo migliore amico Boško. «Non ho cugini vivi e non so di cosa parli». Nelle situazioni di massima crisi in famiglia, mio padre si rivolgeva disperato a mia madre, che in quell’occasione lo accompagnò in via Maksim Gor’kij, luogo del delitto. Arrivati davanti all’ex Paragrafo, trovarono la polizia che aveva isolato l’intera parte della strada con dei nastri gialli, come nei migliori film americani. Dopo aver parlato con gli ispettori presenti sul posto, scoprirono che il nuovo affittuario, che portava lo stesso cognome di mio padre, la sera dell’inaugurazione non aveva voluto più servire un cliente già visibilmente ubriaco. Quest’ultimo, per niente contento, era tornato a casa per prendere la pistola e gli aveva sparato a una gamba. «Per fortuna il nuovo proprietario è zoppo e quello gli ha sparato alla gamba malata» dicevano le persone radunate intorno al Paragrafo. La piccola kafana di mio padre rimase chiusa la stessa sera dell’inaugurazione. I titoli dei giornali il giorno dopo parlavano del sangue versato in via Maksim Gor’kij. Finì così la storia infelice del Paragrafo a Čubura. Possedere una propria kafana placa l’esigenza di godere sempre dell’atmosfera tipica di Belgrado: il fumo nei locali, il tempo che scorre diversamente e quella patina slava ancora rinchiusa in qualche locale sopravvissuto a Čubura. Ascoltare la musica dal vivo, alzarsi dai tavoli per ballare e cantare. Kafana je moja sudbina, kafana è il mio destino, è una di quelle canzoni che meglio spiega lo spirito che si respira in questi luoghi. Colma di un ritmo melanconico, è stata interpretata da uno dei cantanti tradizionali serbi più famosi: Toma Zdravković.

Belgrado nelle sue kafane evoca un’immagine nostalgico-melancolica che sfocia nel patetico. Non è una città bella che costringe i visitatori a una perenne ansia da prestazione. È un luogo che permette di rovesciare i canoni prestabiliti della visita; l’ultimo posto in Europa che ancora mantiene la propria autenticità senza sforzarsi di venderla e renderla attraente ai turisti. Ancora abbastanza moderna per poter deludere quei turisti alla ricerca di un “orientalismo slavo” che fa parte della costante romanticizzazione dei Balcani. L’Occidente considera spesso questo territorio come una terra di leggende, favole e miracoli. Un’alternativa possibile al mondo occidentale prosaico e profano. Le kafane di Belgrado restituiscono l’immagine romanticizzata della capitale serba. Considerate le “università della vita”, le chiamano con i più svariati nomi: mehana, mejana, karavan-saraj, han, birtija, kavana, bircuz, restoran, gostionica, bistro, bife. Qui si possono sentire le vecchie canzoni della città e le cosiddette sevdalinke, canzoni strappalacrime dai ritmi orientali, lascito della cultura ottomana. Ci si sente a casa dentro queste canzoni, come descritto anche da Milan Kundera nello Scherzo: «Mi sentivo felice dentro quelle canzoni, dove il dolore non è un gioco, il riso non è falso, l’amore non è ridicolo e l’odio non è timido, dove la gente ama col corpo e con l’anima, dove quando è allegra e quando è disperata si getta nel Danubio, dove l’amore è ancora amore e il dolore ancora dolore e i valori non sono stati ancora devastati; e io mi sentivo a casa dentro quelle canzoni, mi sentivo uscito da loro, mi sembrava che il loro mondo fosse il mio marchio originario, il mio mondo che io avevo tradito ma che tanto più era il mio mondo (perché la voce più supplichevole è quella del nostro mondo verso il quale ci siamo resi colpevoli); capivo anche, però, che quel mio mondo non era di questa terra, che quello che stavamo cantando e suonando lì non era che un ricordo, un monumento, la sopravvivenza simbolica di qualcosa che non c’era più, e sentii il suolo di quel mondo mancarmi sotto i piedi, nel profondo dei secoli, in una profondità sterminata (dove l’amore è amore e il dolore, dolore) e mi dicevo con stupore che il mio unico mondo era proprio quello sprofondare, quella caduta indagatrice e avida, e mi abbandonavo a essa, provando una dolce vertigine». Le kafane preservavano da sempre anche un preciso valore politico. Si sapeva dove andare per trovare certi esponenti di partito. Qui si organizzavano i club sportivi, la borsa di mercato, le esposizioni d’arte. Era un’istituzione dalla quale nessun segmento della vita culturale o economica veniva esentato. La rivalità fra i quartieri Čubura e Dorćol (adiacente al centro storico) si manifestava anche attraverso la scelta delle kafane da frequentare.

Quando si è giovani si esagera in tutto, così noi continuiamo a esagerare nelle kafane. Tornando a Belgrado preferisco andare nella kafana del quartiere “nemico” Dorćol, al ristorante Proleće, la primavera, anche solo per prendere una birra con Kristina. La serata non può finire senza che si ordinino almeno cinque čevapčići (gli involtini di carne) e una šopska salata (l’insalata tipica delle kafane). A differenza di molte altre, Proleće è un luogo silenzioso, ma che riserva ancora quell’immagine stereotipata dell’est: semioscurità, fumo, alcol e misticismo. In pieno centro, nel cuore pulsante turistico Skadarlija, la kafana per eccellenza è Klub Književnika, il club degli scrittori. Una volta questo ristorante abbastanza trasandato era la sede non ufficiale della stampa estera durante la guerra in ex Jugoslavia. Da una decina d’anni completamente ristrutturato, si è trasformato in uno dei luoghi più alla moda. Fra le kafane modernizzate, c’è anche Madera. Si trova sulla strada più lunga di Belgrado, Bulevar Kralja Aleksandra, all’inizio del parco Tašmajdan. Skadarlija, a volte paragonato a Trastevere a Roma, lo visito spesso per il bar Šikarica. Sta all’inizio della strada ancora riempita da ciottoli grandi, probabilmente per simulare i tempi dell’Impero ottomano e aggiungere un altro tocco di romanticismo orientale. Šikarica è il luogo di ritrovo di uno dei gruppi che hanno segnato la mia adolescenza: Darkwood Dub. I testi delle loro canzoni raccontano la resistenza di Belgrado all’epoca del regime di Milošević e sono ancora un punto di riferimento per molti di noi cresciuti negli anni Novanta. La parte più turistica di Belgrado cela la sua anima vera in una trattoria nascosta nella zona bassa del quartiere Dorćol. Il posto, simile a una baracca, si chiama Soda Voda e ci si fanno le ore piccole in fretta, cantando la musica tzigana, anche se non si conoscono le parole, e condividendo lo stesso sogno: che la kafana sia il destino di tutti.

(Questo testo è un estratto del libro “La cicala di Belgrado”, Bottega Errante Edizioni. Ringraziamo la casa editrice e l’autrice per la gentile concessione).

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