Rivista di luoghi, storie e altro

L’aria condizionata combatte la sua sterile guerra contro la ferma calura estiva. Ronza, arranca e alla fine sputa fuori un filo d’aria fresca che si riscalda nel giro di un niente. La moquette verde emana caldo, la mobilia di legno scuro da grande albergo americano appesantisce la stanza, la doccia diffonde acqua a temperatura ambiente. Fuori ci sono quarantatré gradi. La tenda è troppo corta, espleta la sua funzione per metà: se la tiro fino in fondo la parte vicina al muro rimane scoperta; se non la tiro, dal lato opposto – nonostante i blocchi di cemento che coprono la facciata a rigor di logica dovrebbero schermare le finestre –, entra il riverbero dei raggi di sole che contribuiscono ad aumentare la temperatura all’ennesima potenza. Arrivano riflessi dalle finestre delle altre camere di questo edificio compatto, dalla linea leggermente arrotondata simile a un alveare con il miele che cola dalle cellette delle api. Fa molto caldo all’undicesimo piano dell’hotel Uzbekistan, vero capolavoro di architettura brutalista: alto diciassette piani, troneggia solitario in piazza Amir Timur, nel centro del centro di Tashkent. Da fuori sembra un palazzo rivestito d’oro. La piazza su cui si affaccia è una circonferenza quasi perfetta, con delle aiuole che mi chiedo come possano rimanere così immacolatamente verdi con questa temperatura. Aiuole che una volta pare fossero ombreggiate da grandi platani, ma l’allora presidente Islam Karimov li fece tagliare perché impedivano non si capisce quale vista prospettica su di un palazzo a lui caro. Li fece sostituire con piccoli cipressi verde scuro che nonostante le cure materne dei giardinieri comunali faticano a crescere. Poco male, il presidente Islam Karimov, padre dell’Uzbekistan indipendente, saldamente al comando ancora prima dell’indipendenza, è morto da due anni. Non potrà più lamentarsi.

Foto © Roberto Conte

Un albergo simile all’hotel Uzbekistan si trovava in ogni città dell’ex URSS degna di questo nome. All’epoca si chiamavano tutti Intertourist. Come gli altri 145 Intertourist sparpagliati per il territorio dell’Unione sovietica anche questo di Tashkent era l’unico hotel della città che poteva ospitare i viaggiatori stranieri. Come in un romanzo di Graham Greene o Eric Ambler, si dice fossero hotel popolati di spie. Quello di Tallinn oggi si chiama hotel Viru e delle storie delle spie ha fatto un’attrazione turistica. Al ventiduesimo piano, l’ultimo, c’era un grande ristorante. Sopra, al ventitreesimo, c’era ciò di cui non si doveva parlare. Era un piano che tutti sapevano esistere ma non veniva mai nominato. Un piano dove non arrivava l’ascensore, non salivano le scale e non erano ammessi curiosi. Un piano fantasma, il piano del KGB. Oggi all’hotel Viru, davanti a una porta bianca chiusa che si affaccia sulle scale del ventiduesimo piano c’è un cartello in estone: «SIN EI OLE MIDAGI». Qui dietro non c’è niente. Non si capisce se sia il crudo umorismo sovietico o una presa in giro.

Qui all’hotel Uzbekistan di Tashkent, che si fregia di aver ospitato Federico Fellini e Marcello Mastroianni, ho come il sospetto che a cercarlo bene quel piano delle spie sia ancora attivo, vuoi perché l’Uzbekistan è rimasto assai legato a certe attenzioni sovietiche, vuoi perché l’affettata e sorridente scortesia degli addetti alla reception non può essere spontanea. «No, la stanza non la può cambiare. L’aria condizionata funziona benissimo. È normale che sia caldo: fa caldo, è agosto». Sillogismo imbattibile.

Foto © Roberto Conte

L’albergo è popolato da qualche gruppo turistico, spagnoli sulla Via della seta, italiani in partenza per la consueta tripletta Samarcanda-Bukhara-Khiva. A sera spuntano dei tizi che diresti pakistani, ma dai lineamenti potrebbero essere anche indiani. Pantaloni lunghi, camicia sgargiante, scarpe di vernice chiuse e occhiali da sole, sono in preda a uno strano fremito. Non riescono a stare fermi. Fanno avanti e indietro tra i divanetti dell’ingresso e la reception. Sulla parete alle spalle dell’addetta al ricevimento otto grandi orologi segnano otto ore diverse, da Tokyo a New York. Uno segna l’ora di Karachi. Al bar della lobby, tra divanetti di broccato dorati e poltrone dove potresti dormire comodo comodo, visto che qui sotto l’aria condizionata funziona, tre ragazze con i capelli lunghi e biondi, un’età indefinibile ma giovane e quella faccia da commemorazione funebre che riescono ad avere sempre le russe anche quando sono felici, si specchiano nei marmi del pavimento. Bevono acqua Borjomi, fumano distrattamente e spiluccano semi di girasole come badanti a riposo su di una panchina in un parco. Arrivano anche i pakistani, si siedono in sei intorno a un tavolino e ordinano whiskey e cola. Le tre si rimettono in ordine, ravviandosi i capelli. Uno dei sei si fa avanti, confabulano in una specie di inglese mal masticato di cui si riesce a carpire poco. Sarei curioso di sapere che cosa si dicono, ma non serve. Si alzano: ascensore. Non ci saranno più le spie all’hotel Uzbekistan, ma altre cose non mancano.

(Questo testo è un estratto del libro Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale, Ediciclo Editore, 2020. Ringraziamo la casa editrice per la gentile concessione).

Le immagini presenti all’interno di questo testo e la galleria qui sopra sono invece una gentile concessione di Roberto Conte, che ringraziamo molto. Se ti piacciono, puoi seguire Roberto su Instagram e Facebook. Se ti piacciono davvero tanto, qui puoi acquistare una copia serigrafata di una delle sue foto dell’Hotel Uzbekistan.

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