Ai nostalgici dei confini, a chi sostiene che gli spostamenti aerei hanno annullato il senso dello spazio e della geografia, e che anche quelli stradali non sono più come una volta, dopo l’evaporazione delle frontiere in area Schengen (almeno per alcuni fortunati…), consiglio vivamente un’escursione a Kaliningrad. Due ore e mezza di attesa fermi nel nulla davanti a una sbarra e quattro livelli di controlli, due per ciascun paese, restituirebbero il senso del limes a chiunque. D’altronde la Polonia è l’antemurale dell’Unione europea da queste parti, nonché il suo primo baluardo nella lotta al contrabbando, attività che sembra tuttora rivestire una certa importanza nell’economia della regione di Kaliningrad. Specie di sigarette. In città si trova infatti la Manifattura Baltica Tabacchi, famosa per produrre le Jin Ling, una marca illicit white esclusivamente destinata al contrabbando. Già il pacchetto giallo limone potrebbe istillare qualche sospetto: è praticamente identico a quello delle Camel, ma al posto del cammello vi campeggia un muflone, o una capra di montagna a seconda delle interpretazioni (e infatti in gergo si chiamano “caprette”). Ufficialmente, non hanno smercio all’estero, eppure la quantità prodotta ogni anno supera di parecchie volte quella che potrebbe essere la richiesta interna.
“Zdravstvujte tavarisci!” (“Salve, compagni!”) Un gioviale doganiere polacco fa capolino sul pullman e ci saluta in un russo pressoché perfetto. Molti compagni sobbalzano. L’autista ritira in silenzio i nostri passaporti, poi scende dall’autobus e sparisce. Guardo fuori dal finestrino: agli altri caselli c’è solo qualche auto in attesa, evidentemente chi doveva rientrare per la festa l’ha già fatto. Cerco di spiare i movimenti dei doganieri, ma non si vede nessuno, a parte due cani randagi, riversi sull’asfalto, immersi in un sonno straordinariamente profondo, e una gazza felice che svolazza avanti e indietro nella terra di nessuno. Intanto la temperatura all’interno del pullman sale, i finestrini sono sigillati, l’aria condizionata è spenta e il sole splende implacabile, alto nel cielo nordico senza una nube. Le vecchiette sospirano, qualcun altro ridacchia istericamente, quasi tutti si sventagliano. Tento di distrarmi leggendo, ma mi sento come una bambina dimenticata dai genitori in macchina all’autogrill.
Dopo una mezz’ora torna l’autista, senza passaporti, ma con l’aria soddisfatta, evidentemente la frontiera di Mamonovo offre qualche luogo di ristoro di cui noi ignoriamo l’esistenza. Un tizio straordinariamente irsuto e dall’espressione un po’ equivoca pretende che, almeno, ci apra la botola. La sensazione di soffocamento si allenta. Dopo una decina di minuti di fisiologico temporeggiare, il conducente rimette in moto e, con ineffabile lentezza, ci avvicina alla meta. E così, di metro in metro, superando una sbarra dopo l’altra, arriviamo finalmente all’ultimo controllo. Passiamo i nostri bagagli al metal detector e restiamo all’interno della dogana, in attesa di ulteriori sviluppi. Un ragazzo con gli occhiali racconta al vicino come si sta in Svezia. Il tizio irsuto, che tra Danzica e Elbląg mi aveva rivolto delle occhiate interessate, ma poi a quanto pare mi ha scartata come eventuale preda, si è appiccicato in alternativa a una compatriota dall’aria agreste e imbarazzata. Vedendomi ciondolare in giro, si rianima all’improvviso e, grugnendo, mi fa degli strani gesti, come se fossi una capra da riportare all’ovile, per spiegarmi che devo aspettare lì. È chiaramente terrorizzato al pensiero che, scomparendo chissà dove, possa far ritardare la partenza del pullman. Sono tentata di dirgli: parli pure in russo, ma lascio perdere. Il rito della dogana deve avere una valenza liberatoria, forse addirittura purificatrice: senza che ce ne accorgessimo, la confisca dei passaporti ci ha riportato a uno stato di innocenza infantile – o almeno l’impressione è questa, visto che l’autista ce li restituisce chiamandoci per nome, e non per cognome, come se nel frattempo fossimo tornati tutti bambini. In fondo al pullman abbondano le v: “Viktor, Vladimir, Vera, un altro Vladimir…Valentina…”, e mi sorride col tipico sorriso che illumina i volti dei russi quando le cose vanno a finire bene.
A Ušakovo, dopo tanta terra smossa e rivoltata, il mio finestrino inquadra finalmente un po’ di azzurro – è la laguna della Vistola, col suo orizzonte basso e vuoto, la sua superficie stagnante, impastata di sabbia, rotta soltanto da qualche barca troppo stanca per mettersi in moto. Arriviamo in prossimità di Kaliningrad quando ormai sono quasi le venti – 166 chilometri in cinque ore, non male… Man mano che ci avviciniamo alla città, riaffiora l’impazienza provata alla partenza: vorrei rovesciare con un gesto insofferente questi casermoni sovietici accostati in bilico l’uno accanto all’altro, come le tessere del domino; vorrei abbatterli e vedere alle loro spalle il diorama della città che finora ho soltanto immaginato. Accarezzo l’istante in cui quelle immagini da Kaiserpanorama che hanno sfilato tante volte davanti ai miei occhi – la porta gotica di Brandeburgo, il monumento a Kalinin, la prospettiva Lenin, il Palazzo dei Soviet e l’isola di Kant – smetteranno di essere frammenti isolati e si comporranno per me in una visione d’insieme, senza più vuoto tra una diapositiva e l’altra, senza scampanellata! Voglio essere ovunque, a Kaliningrad come a Königsberg, ho bisogno di sprofondare nella città fino a perdermi.
(Questo testo è un estratto del libro Una mappa per Kaliningrad. La città bifronte, Exòrma Edizioni. Ringraziamo la casa editrice per la gentile concessione)