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Samarcanda non è una città terrena

«Quando non sarò più capace di rimanere deluso, l’avventura sarà finita», chiunque dovrebbe mandare a memoria questa frase di Geoff Dyer prima di partire per questa città. A Samarcanda arrivo attratto dal  nome che evoca sete fruscianti, bazar ribollenti di vita, cupole e minareti tappezzati di maioliche color acquamarina. «Samarcanda» diceva Terzani, che ci passò un compleanno nel 1991, «è una promessa». Una promessa non mantenuta. Promette bellezza e invece regala una decadenza sontuosa, a girare per una città posticcia che di affascinante ha ben poco. Così trovandomi a camminare amareggiato per le sue strade mi viene da chiedermi perché Michele Santoro avesse scelto il nome di questo posto per il suo programma. O perché Vecchioni l’avesse eletta a simbolo nella sua canzone. Sia come sia, benvenuti a “Samarcanda”, non una città terrena. C’è stato un tempo, molto prima di Vecchioni, in cui era davvero il centro del mondo, di questa parte di mondo, almeno. Lo è stata due volte. Prima, quando si chiamava Maracanda – come erano soliti nominarla i greci –, era una metropoli abitata dai sogdiani, un sofisticato popolo iraniano che l’aveva trasformata in una città splendida e sontuosa, poi conquistata da Alessandro Magno nel 329 a.C. e rimasta sonnacchiosa, ancorché fosse un importante centro carovaniero. Gli arabi la conquistarono nell’VIII secolo, portandovi l’Islam e favorendo un progressivo risveglio culturale. Poi nel XV secolo, l’apogeo della gloria di Samarcanda. Da qui era partito il terribile Tamerlano per conquistare mezzo mondo nel suo Risiko medievale: dall’Iran all’India fino alle steppe mongole, alle porte della Cina. Da qui all’epoca passavano le carovane di spezie che percorrevano lente la Via della seta. Di quelle rotte Samarcanda per alcuni decenni, fino al XVI secolo, fu l’epicentro. Oggi, invece, è il centro del nulla.  

Foto © Tino Mantarro

«Samarcanda si colloca ai limiti della geografia» dice Thubron. Da secoli fuori dalle rotte commerciali e periferica a quelle turistiche, Samarcanda è più che altro un nome evocativo. «Una di quelle mete della fantasia che uno si porta in petto dall’infanzia» scrive Terzani. Un’Atlantide terrestre. Oasi polverosa e verde, bizzarramente collocata in un territorio di sabbie e steppe circondato da migliaia di chilometri di pietre sbriciolate, mari svaniti e deserti. In pochi, un tempo, potevano dire di averla raggiunta. Eppure è sempre bastato evocare il suo nome per stuzzicare la fantasia di viaggiatori e poeti. Quasi che quella  strana parola, piena e rotonda, S-a-m-a-r-c-a-n-d-a, fosse l’essenza stessa dell’altrove, l’unica meta possibile per chi ha il viaggio nel destino. Ma la fascinazione che esaltava i letterati e attirava i viaggiatori non era e non è rispecchiata dalla realtà. Quando nel XVI secolo gli shaybanidi scalzarono gli eredi di Tamerlano e spostarono la capitale del loro emirato nell’oasi di Bukhara, la città decadde.

Foto © Tino Mantarro

A inizio Novecento della venerabile Samarcanda non rimanevano che cumuli di fangose rovine. Pare che per alcuni decenni nel XVIII secolo la città, che da due secoli apparteneva al khanato di Bukhara, fosse quasi abbandonata. Ridotta a un cumulo d’illustri macerie, solo con l’arrivo dei russi, nel 1868, riprese vita. Ai russi si deve anche il restauro, o meglio dire la ricostruzione, di quel che resta della gloria di un tempo. Il Registan, con le sue tre imponenti madrasse tempestate di maioliche celesti e tigri, è la cartolina che tutti hanno in mente. L’immensa moschea di Bibi Amur è stata la più vasta costruzione dell’Asia centrale per secoli, prima che crollasse. A un passo dalla guesthouse di Aziza c’è il mausoleo di Tamerlano, il nome ufficiale è Gur-e-Amir, la tomba dell’emiro. Amir Timur, il  condottiero del XIII secolo che qui è eroe nazionale, come Garibaldi da noi. Anche se forse davanti alle statue di Garibaldi le spose in Italia non  vanno a farsi le fotografie in abito bianco. Mentre i bambini che giocano a pallone, quelli ci sono anche da noi.

(Questo testo è un estratto del libro Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale, Ediciclo Editore, 2020. Ringraziamo la casa editrice per la gentile concessione).

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