Tanto per cominciare, Vladivostok è una palude d’acqua salata e dall’aria viziata. Soprattutto col brutto tempo. Pur stando nel più vasto paese del mondo, ci si sente comunque imprigionati in questa penisola dalla punta irregolare. Migliaia di auto giapponesi si ammucchiano sulle strade che si inerpicano su per le colline e non riesci a vedere né terra, né mare. L’orizzonte è coperto da un’isola e si vive tra baie e piccole insenature su una falesia marcita dall’umidità o su una spiaggia di ciottoli. Per la vera taiga, bisogna andare oltre il fiume Ussuri e, per il mare, oltre l’isola di Popov. Bisogna essere già con i piedi in acqua per vedere un leggero ondeggiare del mare. E di mattina, tre ciminiere sputano, nella baia Tichaja, un fumo nero che si perde nella foschia. A volte sembrerebbe di trovarsi ai tropici.
Nemmeno Čerkasov, il pittore che celebra la città, a volte in stile astratto e con molto ottimismo, ha mai dipinto un’onda sulle sue marine a olio.
Dopo aver visto il Chang Tang nel Tibet, le lingue di ghiaccio del Karakorum, il cielo della Mongolia e la luminosità nel deserto del Cile, ho davvero la sensazione di aver perso la libertà.
L’Estremo Oriente significava per me spazi sconfinati, marosi del Pacifico, coste che si perdono a vista d’occhio, là dove finisce la terra e comincia il mare. Non una città come questa, soffocata, che per tutta l’estate si sveglia in mezzo alla nebbia, con isole all’orizzonte che coprono l’Oriente. E certo non un centro urbano ristretto come questo, rinchiuso fra due enormi baie, simili a fossati profondi.
Dunque niente orizzonte e niente passeggiate lungo l’acqua, impedite dalle fabbriche. La baia del Corno d’Oro e le isole che proteggono la città la tengono separata dalle onde, così come la penisola la emargina dalla terra. Bisogna provare a viverci in questa strana parte di Russia, incastrata e ammucchiata sul Mar del Giappone e su questa buffa lingua di terra, in fondo al più grande paese del mondo. Ci vuole un’ora di macchina per raggiungere la taiga, un’ora di nave per raggiungere l’infinito. Gli elementi naturali non li percepisci in questo lembo di terra, occupato a importare Toyota e autobus coreani, ripiegato su sé stesso.
Tra la stazione ferroviaria di Mosca e la nostra, non ci sono grosse differenze: tutti indaffarati e di corsa. Meglio la strada, per chi cerca i confini dell’Eurasia. Superati il lago Bajkal e la città di Čita, l’ecumene finisce, ecco boschi sterminati e il treno corre per tre giorni, in totale solitudine, senza strade parallele ai binari, fino al territorio di Primor’e o del Litorale. A Vladivostok non se ne rendono neanche conto. L’umanità tende, dappertutto, ad ammucchiarsi lungo le coste.
L’estremità della Grande Russia è stretta. E quanta gente attraversa gli Urali e la Siberia per scendere dal treno in questo vicolo cieco del continente, in questa notevole strada senza uscita, detta in capo al mondo o confine della terra. In treno ci vogliono sette giorni, immersi nella calura della pianura assolata d’estate o del riscaldamento soffocante d’inverno. Stremati sulle cuccette, immersi nella vita intima della gente russa che viaggia in quella classe, e vedendo solo betulle fino al Pacifico. Puoi sempre guardare il corridoio invaso da piedi e sandali o il mare verde dal finestrino. Come attraversare l’Atlantico in un sottomarino.
Per sette giorni, si mangiano noodle cinesi che trasudano acqua, roba da far venire lo scorbuto, o si sgranocchiano semi di girasole, uno dopo l’altro, fino a vuotare il sacchetto che pensavate interminabile (quanti semi ci stanno in un sacchetto da 100 grammi?).
Cosa si aspettano di straordinario tutti questi viaggiatori? Un’altra guerra in Manciuria, come racconta Cendrars, che non ci è mai stato? Tigri sdraiate sui binari, direttamente uscite dai racconti di Nikolaj Bajkov? Sottomarini nucleari nei porti del Mar del Giappone e del Mare di Ochotsk? Cittadine da scoprire? Sono costose, esotiche alla maniera sovietica e fondamentalmente brutte. La natura è ostile, le persone talvolta, le venditrici sempre. È scritto perfino nelle guide che danno poche informazioni essenziali per sopravvivere; ma dallo stile si capisce che gli autori, se ci sono passati (ne siamo sicuri?) non hanno resistito a lungo: un albergo, l’indirizzo della stazione ferroviaria, le destinazioni a est e a ovest, la frequenza supposta dei battelli per Sachalin e il Giappone e commenti del tipo: “X è una città dove non vi fermerete a lungo” o “Non si consiglia di stendere il bucato ad asciugare”.
A Vladivostok si sente appena l’odore degli spruzzi del mare. La città non conosce onde, maree, schiume marine. E non si sente nessun rumore di mare, salvo il grido dei gabbiani. Non si vede niente, cala una fitta nebbia e l’aria è pesante. Dal molo si sente il lamento delle balene bianche, che si dimenano a stento nelle loro gabbie arrugginite. E i pochi ciottoli sono ricoperti di bottiglie di birra o di tè freddo cinese. Seduti su vecchie cassette, alcuni pescatori stanno a guardare l’acqua bluastra, mentre turisti giapponesi o coreani passeggiano con la stessa polo bianca.
È lugubre, pare quella calma che precede una tempesta che non arriva mai. Quando le rive di Slavjanka sono coperte dalle nuvole, ci si immagina un mare infinito. Invece no, è solo la baia del fiume Amur, grande specchio d’acqua stagnante, dove si riversano schiume grigiastre. Gabbiani bianchi e piccioni mangiano šašlyk uzbeko. Non si respirano né sale, né iodio, né vento. È una conca scura. E io che sognavo di alzare le vele… Venticinque anni che aspetto, che mi do da fare e neanche un soffio di vento per riempirmi di speranza. Nessun orizzonte e foschia, che scalogna! Tuman, tuman, tuman, nebbia, nebbia e nebbia.
Per trovare grandi spazi, bisogna lasciare Vladivostok e dintorni, con le sue baie e isole. A nord del centro urbano angusto e sovrastato di foschia, si stendono le coste selvagge dell’Estremo Oriente russo, composte di falesie e sabbia quasi bianca. Lì sì, che si sente di aver attraversato l’Asia e di stare davanti al Mar del Giappone, spesso detto impropriamente oceano Pacifico, perché segna la fine di un immenso continente. Vladivostok non è certo in capo al mondo.
Città maledetta d’estate e pure d’inverno, tutta invischiata nella neve sporca. Ma dove ci troviamo? Su una penisola, né isola, né continente. La sola cosa che fluttua è la coda di veicoli che intasano la strada per l’aeroporto, arteria vitale verso l’interno. Centinaia di macchine, l’una addossata all’altra, come sangue che scorre lentamente in una vena otturata. Una città morta nei giorni senza vento, costeggiata da un mare piatto e bloccata da ingorghi sconfortanti, come una Francia in sciopero. Siete un viaggiatore e ci siete capitati in estate e vi chiedete forse: sarà meglio d’inverno? Dopotutto, lo stereotipo fa immaginare Vladivostok sotto la neve. Ma al porto vi diranno che l’acqua non gela più, perché contiene ormai l’intera tavola di Mendeleev, e sulla spiaggia centrale non ci si fida ad allontanarsi, perché il ghiaccio crepa e si spacca, come nelle fontane di Versailles, d’inverno, quando ero bambino.
Ma allora che cos’è quella storia di in capo al mondo? Circa un secolo fa, Kessel aveva capito tutto alla prima occhiata e aveva scritto in Les temps sauvages:
Sulle banchine portatori cinesi ricoperti di stracci parevano larve umane. Tutto – cielo, ghiaccio, case, persone – era grigio, triste, sporco. […] Una città provinciale, fuori dal mondo, meschina… Neve sudicia. Case decrepite, sinistre. Non un viale, non una via decente. E, lungo le lugubri facciate delle case, strane pattuglie di soldati che trascinavano i piedi, con divise l’una diversa dall’altra. Che smentita ai miei sogni! Sono precipitato nella realtà!
Vladivostok mi piace quando il vento soffia forte sulle ciminiere del Tichaja e quando la baia del fiume Amur si fonde con le nuvole nere dalla parte della Corea del Nord. Mi piacciono i banchi di neve che sbarrano le vie, d’inverno, e i lunghi silenzi ovattati, sul viale dell’Oceano, dopo forti nevicate. Mi piace il vento glaciale che ti stringe la testa e il fruscio dei lastroni di ghiaccio, durante il disgelo. Mi piacciono anche quelle piogge torrenziali che precipitano dall’alto verso il mare, in giugno. Mi ricordano le piogge in India e la brutta stagione nelle Ande, tra Perù e Argentina. Quante volte all’anno la natura si sfoga su Vladivostok? Quante volte viene bersagliata dalle folgori del cielo? Due volte per tre giorni? Tre volte? Prima che tutto si sciolga e che fino a primavera resti solo un sottile strato di ghiaccio grigiastro?
Non ho vissuto le serate di San Francisco come Kessel e neanche la nouba a Honolulu; ma dopo essere stato sull’Himalaya e nelle steppe kazake, guardando Vladivostok, mi sembra di aver dimenticato di aprire una finestra dai vetri sporchi.
Ecco la prima impressione. Prime impressioni di un passeggero che arriva da Mosca a Vladivostok, un giorno di giugno o luglio, con in testa le immagini delle stampe di Épinal: nevi scintillanti e luci polari. Si cade dalle nuvole, d’accordo, ma soprattutto dalle latitudini settentrionali della carta. Perché – mettiamoci il cuore in pace – Vladivostok sta al sud!
(Questo testo è un estratto del libro “Vladivostok. Nevi e monsoni”, Voland Edizioni, 2015, traduzione di Gina Pigozzo Bernardi. Ringraziamo la casa editrice per la gentile concessione).