Era l’ora in cui tutto brilla, eppure sbiadisce. Perché il sole ha questo potere, mentre cala: tocca rocce e scogliere, acqua e sale, visi e desideri e prima li fa splendere, ma un attimo dopo regna l’opaco. Era una sera di fine estate in Sardegna, in quello spicchio di costa sud occidentale c’era un tramonto vivido che sapeva di poesia e incanto, un vento pastoso asciugava ogni cosa. Abbiamo perso la strada prima di incontrare lo sterrato che ci ha condotto dritti al mare più meridionale dell’isola di San Pietro. La polvere si confondeva con gli aromi dolciastri di macchia mediterranea che arrivavano piano. Siamo giunti davanti all’anfiteatro naturale di “La Conca” con le palpebre quasi abbassate per il sole e il pulviscolo. Rocce e rocce e rocce incastrate una sull’altra con una geometria inimitabile, ad abbracciare il golfo della mezzaluna e a creare curve, altezze e ombre simili a una epifania.
Uno sciame di moscerini impazziti aveva per un secondo annebbiato il nostro orizzonte, ma eravamo ormai in cima alla scogliera che dilatava ogni sensazione. C’erano la tenerezza dei tuffi infantili e la purezza del mare aperto e c’erano anche una tensione pungente e un lirismo epico non solo per le rupi imponenti che stavamo calpestando. Era uno scoglio scuro, che emergeva dai fondali trasparenti, a rendere quel palcoscenico quasi drammatico, nonostante le vibrazioni che gli ultimi raggi poggiati sull’acqua facevano arrivare sulla pelle secca. Eravamo in molti lì, ad aspettare quel crepuscolo, eppure ognuno di noi era stretto in una solitudine inscalfibile: lo sciabordio mite, le pietre ancora calde e poche parole di sottofondo con gli occhi fissi su quel masso troppo lontano dalla riva ferma. Anche noi, come Sergio Atzeni, “passavamo sulla terra leggeri”.