“We have time, we have time!” esclama Bilal mentre il sole dietro le nostre spalle scivola sulle baracche e i resort di Merzouga. In cammino verso la Gran Duna, sogno un tramonto memorabile dai 150 metri della cima, cosa ci vorrà mai a salire. Ho rifiutato le profferte di quad, fuoristrada e dromedari e mi sono fatto accompagnare fin qui da questo ragazzo: per varcare a piedi la soglia dell’Erg Chebbi, una striscia di 27 km che al confine fra Marocco e Algeria annuncia il Sahara con dune maestose, quelle di Marrakech Express per intenderci. Me lo sognavo da tutto il pomeriggio questo momento, da quando superata Rissani, a 40 km da qui, gli spazi del deserto marocchino si sono dilatati in un infinito polveroso e desolato, percorso da un nastro d’asfalto incredibilmente ben tenuto. Per forza esistono i miraggi, pensavo, il nostro cervello rifiuta l’immagine del nulla. Infatti a un certo punto mentre guidavo mi è parso di veder brillare qualcosa all’orizzonte, una striscia arancione ma troppo arancione, come disegnata con l’evidenziatore. Una visione che non mi ha più lasciato finché le ho tastato i piedi. È successo a Khamlia, minuscolo villaggio sui bordi dell’erg, dove sono stato accolto da Le Pingeons de Sable, gruppo di musicisti gnaoua discendenti degli schiavi dell’Africa Nera, continuatori di una tradizione sonora celebrata oggigiorno a Essaouira da un festival internazionale. Ritmi ipnotici scanditi da tamburi, nacchere e uno strumento a tre corde che non avevo mai visto, e inni cantati da tre ragazzi danzanti fra cui uno che porta il nome di un santo, Bilal, lo schiavo nero cristiano liberato da Maometto per aver curato la figlia del profeta con il suo canto. Sono sempre loro che dalla mattina alla sera portano il tè ai turisti che vengono ad ascoltarli, è lui che dopo aver suonato tutto il giorno si toglie la tunica bianca (simbolo di pace) e verso le sette mi accompagna a Merzouga. Dal parcheggio ci vogliono almeno 40 minuti per raggiungere la base della Gran Duna, eppure sembrava così vicina, o forse sarà che nell’oceano di sabbia anche il tempo si sfarina ed è un attimo tornare bambini e correre affondare rotolare sentirsi bene o addirittura felici per aver trovato un metro quadro di terra dura, come sul bagnasciuga di una spiaggia. Bilal si tiene qualche passo indietro, e mentre io arranco cercando di seguire l’orlo della cresta lui sale in ciabatte scrollando il telefonino, nell’altra mano un bottiglione d’acqua. “We have time” ripete. Ma non è vero. Le dune hanno già virato dall’arancio al rosso al caramello, la sabbia si raffredda, la luce rarefatta annuncia che il tramonto è vicino. Mi fermo a metà strada. Da qui posso ascoltare i suoni dei granelli smossi da uno stercorario. Da qui posso vedere che la cima di ogni duna non è che un’illusione. Una cartolina che dura solo un istante.