STUPORE DOMESTICO
Ho vissuto per 15 anni a São Paulo nel quartiere di Perdizes, composto da un ceto medio conservatore e ossessionato dalla perfezione irraggiungibile. Di fronte a casa mia, a quella che era casa mia e che ho lasciato alla fine di agosto 2022, mi è apparso un evento poetico portentoso. Attraverso la strada e lei sta là, sola, abbandonata, tra ciuffi d’erba incolta e qualche cartaccia: è una casetta stretta tra due case perfette, quasi camuffata tra loro e così solitaria che sembra uscita da un racconto di fiabe del secolo passato. Dai due lati di una porta sgangherata, porta serrata da secoli, forse millenni, si dipanano le radici aeree di un albero elegante e apparentemente secco, che disegnano un merletto ligneo. Poi le radici salgono e circoscrivono una finestrella ovale per non far curiosare dentro occhi indiscreti, dando un senso di rispetto delicato. Il risultato sembra un mini Gaudì spontaneo, dove lo sprofondare inesausto delle radici crea ossa e cartilagini, teschi e femori che fuoriescono dal corpo-casa in via di putrefazione. In basso, si intravedono scalini di legno sconnessi e inutilizzati. Lei, questa casetta stretta stretta, vorrebbe essere un modello di casa unifamiliare, cioè destinata a una sola persona: una principessa qui rinchiusa da una matrigna malvagia o da un padre geloso, come nelle fiabe. Casetta bassa, stretta e sottile che a lungo hai protetto la giovinetta ormai libera. O imprigionata…
Alzando lo sguardo scopro con gran sorpresa che in alto l’albero è vivo, che continua a fiorire di foglie e di rami, di fiori e di bacche. Mi si apre il corpo poroso nell’ammirare lo stupore floreale. Se le radici serrano porta e finestrella in basso, in alto l’albero continua a crescere, si espande libero al di sopra del tetto traforato, lo sovrasta, lo smuove. I rami si allungano in verticale e le foglie aspettano fiori colorati che arriveranno in primavera.
In quel momento sento che la casetta abbandonata, scrostata di calcinacci carnosi e nodosa di radici ossee, libera di foglie verdi in attesa di colori floreali, è allegoria della mia vita. Ho vissuto a lungo dall’altro lato della strada, su un predio di 17 piani, concreto ed efficiente come la morte. Di fronte, senza saperlo o capirlo, avevo negli occhi quello che insegnavo: roots e routes. Le radici ossee hanno senso solo in quanto ci si innalza verso itinerari sconosciuti. Mi immagino volare su foglie caduche verso rotte impossibili, trascinate dal vento o dal caso. Le due parole inglesi suonano quasi identiche, eppure i concetti sono così diversi. Oltre il noioso e iterativo elogio delle radici (roots) inflazionato da pensatori stanchi, politici inetti, giornalisti che intervistano il nulla, radici oscure e sotterrate, immobili e umide, transitano le rotte, i sentieri (routes) per deambulare senza meta, liberi di scoprire possibili futuri. “Lei” – questa casa-allegoria – invecchia e ringiovanisce, sprofonda e innalza, scurisce e inverdisce, rugosa e liscia. È proprio come me. Oppure io vorrei essere come lei.
La casetta in orizzontale sembra che mi inviti a entrare oltre la soglia malmessa; la casetta in verticale mi libera l’immaginazione di vagare negli spazi indeterminati. Reso immobile da questo incrocio tra empatia e astrazione, mi assale il ricordo di un romanzo breve capolavoro assoluto, cui a volte ritorno per trovare soluzione al suo enigma. Guimarães Rosa è noto per il suo capolavoro, Il Grande Sertao, Veredas, affresco narrato in soggettiva, eterno monologo di uno jagunço ormai vecchio a un ascoltatore ignoto. Il suo racconto breve si intitola A terçeira Margem do Rio (il terzo margine del rio). Si sa che il fiume, ogni fiume ha solo due margini, ma un padre empatico e astratto decide di mettersi su una canoa-bara e scorrere lungo la corrente verso questo terzo margine. E il figlio, abbandonato su una sponda, si dispera e corre qua e là, cerca di trovare il mezzo per raggiungere il padre ormai invisibile dentro il suo legno. Ma è impossibile. Solo al padre è dato raggiungere a terceira margem. È il rituale della generazione, forse. In quel momento ho visto la strada che mi separava dalla casetta come un terzo margine, “il terzo margine della strada”, la mia rua.
SÃO PAULO ASFALTATA
Arrivo a São Paulo alle 5 e 30 di mattina. La polizia di frontiera mi ferma per una quindicina di minuti e penso al peggio: qualche anno fa avevo restituito all’allora presidente Temer la mia onorificenza (Cruzeiro do Sul), con l’accusa di essere un presidente golpista. La Presidenta eletta, Dilma, era stata destituita con un golpe bianco e lui, il vicepresidente corrotto, pedina di un gioco ben più ampio, diventò addirittura “presidente”. La notizia ebbe alquanto risalto perché una giornalista importante della Folha de São Paulo pubblicò la notizia. Come è facile immaginare, ebbi solidarietà e molte più accuse: in tanti scrissero su Metro, altri giornali popolari o nei social che doveva restituire i soldi, l’italiano... In realtà, era solo un titolo di prestigio, una collana di pietre mineiras e una pergamena. Poco dopo Temer fu arrestato, destituito e poi ovviamente scarcerato: aveva aperto la strada a Bolsonaro. Il poliziotto torna, per fortuna era solo burocrazia: siccome erano tre anni che non venivo, dovevo solo riempire e firmare due carte.
Il taxi inizia a scorrere sulla Marginal, un GRA moltiplicato per quattro, con otto corsie in un senso e altrettante nell’altro. Le auto si mantengono sulle corsie e quando cambiano mettono la freccia per tre secondi. Traffico ordinato alle 6 del mattino e quindi veloce. Si affacciano i grandi edifici che mi pare di ricordare, mentre un tenue sole riscalda le finestre. Mi ritorna l’impressione delle prime volte: una metropoli senza inizio né fine, uno spazio che non ha ammesso nessun piano regolatore. Solo mutazioni continue, sovrapposizioni, eliminazioni, coesistenze: tutto gigantesco ai miei occhi “romani-provinciali” affascinati da questo disordine creativo.
L’asfalto è predominante, sua è la legge urbana e urbanista di São Paulo: asfaltare tutto. Ho capito ieri che è l’asfalto che “guida” le macchine, tipo tapis roulant continuo. Le indicazioni in alto sulla Marginal sono tante, troppe per me, sollecitano i guidatori a fare scelte che devono essere rapidissime altrimenti sono (siamo) perduti. Il tassista fa un itinerario che non riconosco, poi capisco leggendo una targa che mi trovo vicino alla mia rua… Rallenta e si ferma davanti al numero che gli avevo dato. Sono perplesso, penso che si sia sbagliato e glielo dico ma lui conferma. Controllo e il numero è proprio esatto. Scendo e vedo che hanno fatto un restyling dell’ingresso, con il portiere sorvegliante in una garitta vitrea-fumé da cui apre le porte rimanendo invisibile, per scongiurare eventuali ladrões.
Insomma quella che era la mia città polifonica si rivela come estranea proprio là dove mi doveva essere più familiare. Oppure sono io che per amnesie o rancori o insoddisfazioni pretendo di essere estraneo a me stesso e quindi replicare questa estraneità dappertutto, anche in quella che era o dovrebbe essere casa mia. Ma una cosa è certa e farà incavolare i romani: le strade sono tutte pulitissime, neanche una traccia di “monnezza” o di cacca di cane, mai un materasso abbandonato o sacchi di plastica aperti come corpi feriti da cui invece di sangue e budella escono torsi di mela, resti di spaghetti, bottiglie sfasciate. Lo immaginavo. Perché conosco il segreto di come funziona il lixo qui a São Paulo.
MONNEZZA O LIXO
È noto che una delle ossessioni dei romani sono i rifiuti urbani, per questo ora racconto quello che ho visto e vissuto abitando per anni in quel predio – da me non riconosciuto subito – di media-piccola borghesia (impiegati, funzionari, studenti). I piani sono 17 e io abito al 13. Ciascun piano ha otto appartamenti e sui due lati di ogni piano si trova una sistema a porte di legno dove, quando aperte, si mettono i rifiuti, tranne carta ferro ecc. che vanno al piano terra. La sera passa un operaio che prende il lixo (“liscio”) e lo mette dentro grandi buste di plastica nera ben chiuse. Poi il tutto si posiziona davanti all’entrata, su una specie di fioriera in ferro sollevata da terra. A volte passa un senza-casa che apre le buste, prende qualcosa e le richiude, sotto lo sguardo attento del portiere in guardiola fumé. Tra l’altro, dei sensori accendono la luce se qualcuno cammina sul marciapiede di fronte all’ingresso. In nottata passa il camion su cui stanno attaccati diversi uomini che scendono velocemente dinanzi la fioriera-di-lixo. Il camion non si ferma, rallenta solo, gli operai prendono i sacchi e li lanciano correndo dentro, poi risalgono sui predellini. Il tutto poi viene scaricato nei depositi su cui sono state girate memorabili novelas. In tal modo, questo tipo di strade rimangono pulite per una sorta di alleanza tra un senso civico diffuso tra i paulistani e una mano d’opera a bassissimo costo.
Detto in termini socio-antropologici, questo sistema perfetto funziona in quanto riproduce un modello sociale dove la questione coloniale ancora non è stata risolta: anzi, riproduce una eredità che sembra inossidabile come il concreto, cioè il cemento armato che è l’identità urbana/urbanistica. Ora uso termini superficiali di cui mi vergogno alquanto: in questo quartiere e nel mio palazzo in particolare vivono solo “bianchi”, mentre gli addetti al lixo sono nordestini (virgolette che non bastano a scusarmi della mia volgarità che serve per “identificarsi” con l’aggressore). In realtà, sono tutti paulistani però il sistema di classe e di potere (sociologico) si mescola a quello “etnico” e “cromatico” (antropologico) il cui risultato è il paradigma del Brasile: il sistema monnezza/lixo riproduce all’infinito l’incompiuta democratizzazione del paese dalla matrice schiavista-coloniale a quella salariale, il salario minimo. Il Brasile è stato l’ultimo paese ad abolire la schiavitù (1888) e nei primi anni delle mie ricerche una mãe de santo (autorità della religione afro-brasiliana Candomblé) mi disse: “mia nonna che era nata schiava…”. Insomma questa incredibile pulizia stradale è in realtà una macchia politica, forse anche una sporcizia etica e culturale, simbolo etnico di una questione “razziale” irrisolta.
ASCIA INGEGNERA
La FAU è la celebre facoltà di architettura disegnata da un vero maestro del modernismo, J.B. Villanova Artigas, fondatore di una scuola famosa nel mondo, tra cui il premio Pritker Paulo Mendes da Rocha, il caro Decio Tozzi, la “nostra” immensa Lina Bo Bardi. Negli ultimi anni, la FAU si è chiusa in sé stessa e ha favorito (è una mia ipotesi “indiscutibile”) l’affermazione senza limiti degli ingegneri. Questi ingegneri sono anche bravi, ma non hanno una visione estetica né urbanistica. Così hanno riempito il vuoto lasciato dalla FAU e hanno affilato l’ascia golosa. Nel mio quartiere (Perdizes), che è una città media italiana, la scintilla l’ha data un progetto ottimo: creare la sesta linea amarela della metro. Un imponente progetto sta sezionando due delle vie principali: Cardoso de Almeida e Sumaré. Accanto all’importanza decisiva di estendere la metro (è bella e pulita ma piccola per questa megalopoli e scoppia all’ora di punta), si è avventata la speculazione edilizia guidata proprio dagli ingegneri. Questi hanno subito iniziato a tagliare aree tradizionali, quelle che a me hanno suggerito il titolo di “città polifonica”, che mescolavano la co-presenza di casette basse, dolci villette unifamiliari, colorate e ben disegnate un secolo fa, con edifici ad alta intensità abitativa. In queste stradine si stanno innalzando edifici che oscurano panorami e luci, spingendo un’attrattiva di mobilità futura-prossima verso queste nuove abitazioni insieme a traffico già asfissiante, negozi vari, centri di consumo, fitness eccetera. Insomma la metro, prima ancora che si realizzi, sconquassa il disegno urbano del mega-quartiere favorendo l’attrazione di professionisti, studi vari, attività ricreative o creative, lojas di lusso per vestiti cibi e corpi.
A me pare che la tendenza generale vada verso annullare la distinzione classica tra pubblico e privato. Come nei social, così nell’asfalto, mi viene voglia di affermare: l’analogico si mescola col digitale, la metro pubblica con l’edilizia privata. E sono gli ingegneri – possenti e lucidi come tastiere Iphone – che tagliano con l’accetta le casette del passato come i Bandeirantes paulistani tagliavano foreste e teste. Gli ingegneri sono Bandeirantes metropolitani. Chi non sa cosa siano stati, è ora che si informi. Il colonialismo portoghese ha massacrato culture indigene e foreste tropicali attraverso la caccia di questi avventurieri senza scrupoli, cui la città ha persino dedicato un orribile monumento. Essi partivano in colonne armate con davanti la bandiera (bandeira) e radevano tutto quello che incontravano, esseri umani, alberi, animali, rocce, dei. Quel dominio coloniale che in passato indirizzava verso l’esterno la missione della “civiltà” occidentale, ora gli Ingegneri lo praticano all’interno: urbanizzare l’urbano con l’ascia.
In Italia ancora non ci sono le Gate Community (almeno credo): qui ne ho visitata a lungo una, enorme, circondata da mura, con guardie private all’ingresso generale e a ogni singolo palazzo (tutti uomini “chiaramente neri”). È impressionante vedere che queste “gate” non abbiano un disegno che un normale architetto, il più sfigato, potrebbe inventare: è il grigiore “circondato-che-si-circonda” e che isola per vivere assediato senza alcuna “communità”. A Perdizes non è possibile fondare queste community, manca lo spazio, così si sfodera l’ascia di guerra che taglia ed erige il futuro grazie alla mobilità della metro pubblica che fa schizzare verso l’alto affitti e vendite private. E l’arte degli architetti è andata in esilio… I palazzi altissimi in via di costruzione, alcuni già finiti (pare da cinesi) sono decine e decine. Vorrei tornare tra uno o due anni solo per vedere i cambiamenti e scappare dalla mia rua Augusta (foto 6,7,8).
PAU BRASIL
Per la mia temporanea conclusione (per me Sampa è come la psicoanalisi: interminabile) ho scelto un parco cui sono profondamente legato. Si chiama Agua Branca e da casa lo raggiungevo in una decina di minuti. Appena si entrava si accendeva la meraviglia: sulla destra, si accede a una specie di mini-parco arboreo didattico per adulti e bambini. Ogni albero o pianta ha la targhetta su cui si spiega origine e significato. L’albero più visitato è, ovviamente, Pau Brasil. La storia e l’identità del paese sono legate a questo albero che era tagliato dai portoghesi per farne una tinta utilissima per i panni. Brasil deriva da braci e dalle braci rosse del suo legno si produceva quella bellezza che affascinava i coloni bandeirantes. Quindi l’albero Pau Brasil è – più che la matrice – la storia coloniale del paese che, come detto, è ancora irrisolta.
Oltrepassato il mini-parco, si aprono continui quanto inaspettati scorci di meraviglia tropicale. Perché qui la città si ricorda che è tropicale. Maestose seringueiras si alzano tra rami o liane che sembrano adorarla; questi alberi hanno un’altra storia da raccontare, ma è legata a Manaus, dove tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si affermò improvvisa la fortuna della gomma. Stava nascendo l’industria automobilistica per costruire le ruote e tutte le maggiori case, tra cui FIAT, investirono nell’estrazione della gomma dagli alberi attraverso un tecnica precisa, ancora una volta basata su lavorati in condizione di schiavitù. Il drammatico Museu do Seringal (Rubber Museum) a Manaus sull’estrazione del lattice dalla seringueira cerca di far ricordare come vivevono (e morivano) quei lavoratori. Nel parco questi alberi sono maestosi, crescono tranquilli, nessun inciderebbe sul suo corpo i segni venosi su cui la gomma scendeva lentamente fino a essere raccolta nei recipienti, solo perché esiste la gomma artificiale.
Sulla destra, mi ha sempre colpito un centro didattico e ludico per bambini, con animatori, libri, giochi; mentre comode sedie e tavolini sono usati da adulti. Nei sentieri ci sono chioschetti per succhi di cana (canna da zucchero), pastel (fritture), popcorn, gelati, sandwich e anche piccoli barzinhos. Improvviso si apre il grande scenario del galoppatoio. sere la parola guida per l’innocenza dei miei Ottanta. Così cercherò di guardare Roma al ritorno come fossi il fanciullo che esce dal Palazzo Federici dove sono nato, in quella “giornata particolare”, per conoscere il mondo… E torno al mio Pigneto pieno di cacche e monnezze ma vivo. Qui i militari addestrano i cavalli specie di mattina, mentre di pomeriggio giovanissime amazzoni apprendono a cavalcare. Per le più brave si mettono anche piccoli ostacoli, mentre le principianti hanno il cavallo legato a una lunga corda tenuta dal maestro/a. Intorno i palchi su cui siedono familiari o curiosi. Improvvisamente può arrivare il pavone che a volte fa la ruota attirando bambini e adulti per fotografie immancabili. Tutti gli animali sono liberi e nessuno si azzarderebbe a fare del male, anche perché la sorveglianza è attenta ed efficiente. In una zona recintata, una sorta di grande pollaio, diversi tipi di volatili (ad esempio le faraone) possono stare da soli con inservienti che portano loro da mangiare e bere. Le numerosissime galline cercano di scappare dalla passione indefessa dei galli, che corrono sempre dietro e confliggono tra loro per decidere chi è il leader e quindi ha diritto a ingallinare. Le chiocce invece sono indisturbate quando portano a spasso nidiate di pulcini che si fermano a bere o a mangiare i popcorn che i bambini offrono loro. Al tramonto, con mia grande sorpresa, galli e galline dormono appollaiati sugli alberi come fossero frutti.
Le domeniche ci possono essere fiere alimentari, feste nippo-pauliste, aree picnic, expo mistici, tarocchi per tutti. Sulle piste i corridori sono instancabili, ciascuno nel suo stile, mentre le famiglie festeggiano, le coppie amoreggiano, i ragazzi palleggiano, gli anziani ricordano, i pulcini rincorrono. Nel parco la polifonia danza storie infinite di una vitalità che pulsa la sua natura, una natura-cultura tropicale da difendere dal traffico che assedia.
80
Il 12 agosto 2022 ho compiuto 80 anni. Sono orgoglioso di essere coetaneo di grandi musicisti che mi hanno ispirato. Per il resto, non ho voluto auguri. Questo compleanno per me è un pre-lutto. Nella data così banale, si mescolano elementi rituali non solo diversi tra loro ma inconciliabili. La nascita è una felicità, quasi sempre, eppure la festa (almeno la mia) ha il segno oscuro di una fine. Non della morte nel suo senso biologico ma di un lungo tratto della mia vita che collassa nel suo contrario quando avrebbe potuto raggiungere la meraviglia. Perché scrivere su Kaiserpanorama questo mio collasso esistenziale? Lo ignoro. Sento l’esigenza di comunicare con amici intimi o mai visti che la mia festa si è rovesciata in delusione. São Paulo per me è stata la seconda città, direi quasi coeva a Roma. La conoscevo bene, pensavo, mi ha invitato nel 1984, poi vi ho fatto ricerca, amato, insegnato, vissuto. L’ho definita una città polifonica in quanto aveva cambiato la mia vita, non solo per i suoi flussi così diversi dalle mie esperienze urbane, ma per una passione che si è accesa suoi molteplici ambiti che qui sarebbe troppo lungo narrare. Certo, anche amorosi ma soprattutto che estendevano la mia sensibilità, specie tra le culture indigene. Bororo, Xavantes, Krahò, Guaranì…
Ho viaggiato tantissimo per questo Brasile, credo di essere stato quasi dappertutto con calma o velocemente: oltre l’infinta Sampa, l’amata Rio, l’affascinante Florianopolis, l’orgogliosa Salvador, la malridotta Roraima, la nostalgica Manaus, la colta Porto Alegre, la riformista Curitiba, l’elegante Belo Horizonte, l’eccessiva Fortaleza, la dura Recife, le fiamme Cuiabà, l’incompiuta Brasilia, le dune di Natal, il noioso carnevale di Olinda, Goiania dalle belle donne, Santos di caffè e Pelè, Foz de Iguaçu che mi rapì, per non dire di piccolissime città con università vive o isole dai paesaggi mozzafiato. Le amicizie intime per un giorno e per la vita. Viaggiare per il Brasile è sempre stata uma beleza. Mai un incidente, un furto, un’aggressione, una violenza verbale. Per me, dicevo in genere, è un paese senza violenza, anche se so bene la catastrofe prodotta dal commercio di droga, cui non si vuole trovare soluzione che non sia quella repressione militare parte del problema. Per qualche giorno, starò ancora qui di fronte alla casetta fatata, invitato da una dolce amica per fare un corso sul “corpo-d’occhio” e annunciare l’addio a questa città e a questo paese molto amato nonostante Bolsonaro e i suoi tanti, troppi seguaci. Ora sono tornato a Roma fratturato ma pronto alle sfide che mi attendono e che sono fantastiche: insegnare di nuovo Sociologia alla Sapienza. Rigenerarsi potrebbe essere la parola guida per l’innocenza dei miei Ottanta. Così cercherò di guardare Roma al ritorno come fossi il fanciullo che esce dal Palazzo Federici dove sono nato, in quella “giornata particolare”, per conoscere il mondo. E torno al mio Pigneto pieno di cacche e monnezze ma vivo.