In memoria di Paolo Bonassi
INTRO DELL’INTRO
Attraversando l’Italia del nord in auto, al caldo tremendo di giugno, si vede la strada e poco più. Già a quel punto del viaggio ci si può incupire, intuendo l’effettiva impossibilità di diventare un obiettivo fotografico, una specie di spugna di immagini e sensazioni. Si capisce con chiarezza che le strade che percorriamo nella nostra vita sono tutte uguali e sfrecciano via lontano da noi mano a mano che ci avviciniamo al punto d’arrivo. Poi ci fermiamo. Il mondo è di nuovo fermo, si lascia vedere, si lascia guardare. Se siamo capaci possiamo addirittura capirlo, il mondo nuovo che ci aspetta. Monfalcone, per me.
INTRO
Una volta sono arrivato a Barcellona come in un film. Le colline erano di terra secca, desertica, poi di colpo ero imbottigliato in una delle vie vicine al porto e mica ci pensavo, di aver fatto tutta quella strada. Bevevo acqua tiepida, la mia ragazza era svenuta dal sonno e il sudore le colava giù dalla fronte. Mica male, pensai. Arrivai in centro e trovai parcheggio sotto terra. Costava una cifra, ma volevo fare una doccia, ecco tutto. Una doccia e nient’altro. E adesso, dopo un anno, che cosa ricordo di quella città? Niente, davvero poca cosa. Le case strane di un architetto, una collina con una brutta chiesa in cima. Ma dovessi scriverne per bene, di Barcellona, ahimè non avrei argomenti.
1.
Da dove abito io a Monfalcone ci sono cinquecento chilometri da percorrere in direzione est . A mente mi immaginavo sud-est, poi ho controllato la cartina e forse è addirittura nord-est, ma in pratica il Piemonte e quell’ultimo lembo italiano che si chiama Venezia Giulia stanno ai capi estremi di una retta immaginaria. Vicini alla Francia noi, vicini alla Slovenia e alla Croazia loro. Cinquecento chilometri vuol dire circa tutta l’Italia del Nord, io ho attraversato le province di Asti, Alessandria, Pavia, Piacenza, Cremona, Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Udine e Gorizia. Sono solo nomi, certo, e una lista di nomi così corre il rischio di non comunicare granché, come quando si studia geografia a scuola. Eppure gli stessi freddi nomi delle province che ho attraversato possiedono, per me, tutta una loro poesia interna. L’idea di toccare, seppur per un breve tratto, la regione Emilia Romagna, in un tragitto che in teoria potrebbe anche saltarla, se si scegliesse di non scendere a Piacenza con l’autostrada e di agganciare, invece, la A4 da Milano, quest’idea, che non ha niente di poetico, mi riempie di curiosità e di contentezza. Tra Pavia e Cremona c’è l’Emilia-Romagna, già, eccola qua. Per me sono cose che contano. Così come sono sempre stato un maniaco dei confini. Sia quelli minimi (da un comune all’altro in aperta campagna), sia quelli invalicabili (nell’ottantotto tenni il viso schiacciato contro il vetro del finestrino del treno per cercare di riuscire a vedere il posto di confine tra la due Germanie, all’altezza di Probstzella, trecento chilometri a nord di Monaco, centocinquanta a sud-ovest di Lipsia, ma non vidi niente di niente, e la famiglia di tedeschi est che era con me nello scompartimento mi spiegò che quella era Niemandsland, terra di nessuno, e che c’erano torrette e filo spinato elettrificato tutt’intorno). Non è difficile capire perché avessi accettato di farmi un giro in Venezia Giulia, per giunta in provincia di Gorizia, dove il confine è lì alla portata di tutti da più di cinquant’anni e tutti girano diligentemente con la loro propusnica per attraversare i valichi di campagna, che all’improvviso ti sorprendono dietro una curva. Ma solo loro, quelli che abitano in un raggio di quindici chilometri, possono farlo, noi italiani non giuliani dobbiamo presentarci con la carta d’identità alle frontiere ufficiali. La Bisiacheria mi attende, coi suoi vini, io che vengo da un posto di vino e non divino. Eccoci.
2.
A Monfalcone hanno perfino l’aeroporto. Bellissimo e metafisico, si chiama Aeroporto Friuli – Venezia Giulia, in questo istante me lo ricordo perfettamente, ma so che questa memoria andrà a ramengo in pochissimo tempo, per cui me lo voglio annotare. Un bell’aeroporto, che ho visto di notte senza passeggeri e con pochi voli, ma tutto come in un aeroporto vero: negozi, ragazze alte e carine in divisa, scale mobili che si mettono in moto da sole, tabelloni delle partenze e, all’esterno, posti auto deserti. Per chi arriva in macchina, invece, il benvenuto non è dato dalle hostess friulane ma dal paesaggio di case basse che è lo stesso del Veneto, ad un’occhiata fugace ai sessanta all’ora. Niente lascia presagire il mare, per chi come me è indissolubilmente legato al mare della Liguria, a picco sulla roccia argentea (per incontrare quel tipo di mare, da queste parti, bisogna andare dalle parti di Trieste). Invece il mare c’è eccome e un tempo, nel golfo di Ponzano, facevano la tratta dei cefali: uomini seri con colbacco o purilla in testa e imbacuccati in giacconi si sbracciavano faticando sulle barche, tirando su il pesce con il voligòn.
3.
Il territorio collinare tra Langhe e Monferrato è quello che conosco meglio da sempre, il suo vino anche, tanto da dovermi sforzare per credere che anche a Monfalcone ci siano vigneti e attrezzature per la vinificazione e gente che vive i ritmi della vite. Due sforzi, quindi: prendere atto che qui ci sia una cultura di mare, fatta anche di odori di fritto misto che arrivano potenti dal chiosco ombroso di un frittolino, e prendere atto allo stesso tempo che qui, oltre a quella del mare, ci sia anche una cultura di vigneto, fatta invece di terra e umidità, ceste per la vendemmia e capsulatrici automatiche. Qui che sembra che non ci siano né il mare né i vigneti.
Le prime ore faccio un giro al club nautico e vengo a sapere che a Monfalcone i soci del club non sono industriali o gente con tantissimi soldi. Sono quelli del posto che hanno la barca, i soci. Gente qualunque (o abbastanza qualunque) che ha la barca perché abita in un posto di mare, e dunque ha la barca. Dovrebbe essere normale dappertutto, e invece questa notizia curiosa mi dà un senso di euforia speciale: segno che qui si fa esperienza di un’eccezione, altro che il Circolo Canottieri di Roma! Le barche sono ormeggiate al porticciolo del club, l’atmosfera è quella dei giorni caldi d’estate: gente tutt’attorno che si muove pigra a fare lavoretti alle barche, con la calma e la dedizione che sono dovuti a quel genere d’attività e curiosi come noi, che passeggiano e poi si fermano a guardare senza dire niente: dice già tutto la realtà e la realtà è fatta di queste barche bianche e belle, che sono di gente qualunque di Monfalcone, gente che dopo il lavoro, il pomeriggio tardi, scende al porto e va a farsi un giro in barca.
Il porto si confonde con i cantieri. L’occhio intercetta subito, anche da fuori, una costruzione che a prima vista si direbbe edile, un palazzo, insomma, e che invece è nautica, una nave insomma, e che nave! Costa un numero di milioni (di Euro) che non mi ricordo nemmeno. Intorno al grattacielo del mare, da questa distanza, sembra che non ci sia nessuno. Chiedo al mio amico Paolo se ci stiano ancora lavorando o no e mi dice di sì, come no. E forse è vero: i puntini che si muovono piano in cima a quella surreale piramide di Cheope sono gli operai, forse quegli stessi stagionali che si accovacciano a mangiare intorno alle fontane delle piazzette di Monfalcone e telefonano a casa, in Sri Lanka, dalle cabine della Telecom. Siamo a oriente, qua, certo, ma lo Sri Lanka è più oriente, o no?
La faccenda dell’oriente, qua in Venezia Giulia, si confonde spesso e volentieri con la faccenda del centro, centro Europa, intendo. Trieste evoca, a noi del nord ovest, un paio di sensazioni diverse: una è quella che Trieste (ma intendo tutta la Venezia Giulia, Gorizia e provincia incluse) sia la porta per l’Oriente e l’altra è che sia l’unico pezzo di Mitteleuropa – cioè di Europa Centrale – inclusa in territorio italiano. Oriente o centro? Per Oriente, nell’espressione “Porta per l’Oriente”, si intende forse significare la zona orientale del vecchio impero asburgico? Un’idea minimalista di Oriente. Però pensiamoci meglio. L’Austria è a due passi e l’Austria era il centro del centro dell’Impero, ma anche l’Ungheria si raggiunge in poche ore di macchina, tre o quattro, meno di quelle che ho impiegato io ad arrivare qua. L’Ungheria rappresenta davvero il ponte diretto verso l’estremo oriente: la pusza (pianura) magiara continua quasi ininterrotta fino in Siberia, dove gli uomini hanno gli occhi a mandorla e vivono in posti dimenticati anche dalle cartine geografiche. E dunque dove siamo? E a che prezzo questa è Italia? E quanto è Italia?
Rispondiamo a una domanda per volta: dove siamo? Siamo in un posto in cui la gente ha dentro di sé geni veneti, friulani, slavi, germanici e ladini. Il dialetto è un dialetto veneto, addirittura oserei dire quasi veneziano, lontanissimo dal friulano. Nel bar di Doberdò, a sei chilometri da Monfalcone, invece del dialetto la gente parla sloveno, però sono italiani. I cartelli dicono “Orozniki” per indicare i Carabinieri, ma la tv del bar è sintonizzata su RaiTre e tutti capiscono l’italiano. Siamo in Italia, nonostante tutto.
A che prezzo questa è Italia? Questa è una domanda che non ha risposte, non da me almeno. Loro considerano quelli come me italiani, tirandosi automaticamente fuori. Vorrà dire qualcosa. Ho incontrato quasi tutti figli di sfollati istriani. Apolidi italianizzati. Le storie dei loro genitori rafforzano il senso di straniamento che aleggia fin dall’inizio del mio soggiorno. A che prezzo questa è Italia? Non so davvero. Durante la Grande Guerra qui c’erano solo militari, i civili sono tornati alle case dopo la guerra, a vedere cos’era rimasto. Ci sono trincee dappertutto, alcune complete in muratura, altre solo accennate, a seconda degli spostamenti del fronte. Trent’anni dopo è stato il momento di fare un piacere a Tito e al Socialismo e gli istriani sono stati spediti in Sardegna, a Trieste o in Liguria, a cercare paesaggi simili al loro, fatto di rocce assolate a picco sul mare.
Quanto è Italia? Poco, direi. Ma siamo caucasici, parliamo la stessa lingua, frequentiamo le stesse scuole, il mondo è piccolo, figuriamoci l’Italia, ci conosciamo senza conoscerci, siamo una nazione. Anche se qui l’Italia sembra altrove.
4.
Monfalcone, lunedì 9 luglio 2001
Drago moj, sono contento di risentirti! (…)
Allora, cominciamo con ordine: OSMIZA : traduzione italiana del termine slavo “osmica”, che sta a significare un periodo o qualcosa che dura per otto giorni. Si tratta di una concessione fatta in periodo Teresiano (ca.1750) ai contadini slavi del Carso alle spalle di Trieste: potevano vendere i prodotti della loro terra (vino, affettati, uova e qualcos’altro) per una settimana, dietro il pagamento di una piccola tassa forfettaria uguale per tutti… Questa usanza dura tuttora ed è stata sempre rispettata dai vari governi e Stati che si sono succeduti nella zona. Per estensione si chiama “osmiza” anche il locale in cui si vendono e consumano i prodotti. PRIVATA : praticamente la stessa cosa, trasportata nell’area del Monfalconese e in parte del Goriziano, in tempi un po’ più recenti. DIFFERENZE SOSTANZIALI : nelle private non si può servire altro che da bere, eccezion fatta per le uova sode. Le private sono frequentate, per la stragrande maggioranza, da uomini che bevono qualunque cosa, anche il petrolio, dicono stronzate e dopo il quarto bicchiere mettono a posto il mondo. I frequentatori sono da sempre operai e comunque gente di condizione socioeconomica e culturale piuttosto bassa. Le osmize, invece, sono state frequentate da sempre dai cittadini di Trieste, che salivano in Carso per starsene in pace a bere, mangiare e divertirsi fuori città: quindi in osmiza c’è la più varia umanità: uomini, babe1, vecchi, giovani, bambini, studenti, operai e intellettuali.
In Friuli ci sono le FRASCHE, ma con una differenza: sono estremamente più rare, tendono a essere a tutti gli effetti un AGRITURISMO e non sottostanno alla stessa legislazione. Nella sola Ronchi dei Legionari sono aperte, nel corso dell’anno, più di 50 private. Non credo ci siano 50 frasche in tutta la provincia di Udine. Per quanto riguarda il simbolo che indica la presenza di un luogo in cui si vende il vino, la frasca di alloro, credo ci sia un comune denominatore in tutta la civiltà contadina italiana: secondo me la differenza sostanziale sta nel numero di questi posti… e nello stomaco di quanti li frequentano.
Saluti, Paolo
Siamo in macchina. Percorriamo a bassa velocità la strada interna di un paese quasi deserto. Sono le dieci del mattino e fa già caldo, dico a Paolo di non attaccare l’aria condizionata e di tirare giù i finestrini. Ho appena fatto colazione con una fetta di torta al whisky e ho la testa che ronza leggera come un gatto che fa le fusa. Paolo procede a bassissima velocità e con la testa compie i gesti di chi cerca qualcosa tra le case al bordo della strada pur continuando a guidare. Non smettiamo mai di parlare. Per la precisione mi sto facendo una cultura in storia della prima guerra mondiale e in misoginia. Sono argomenti che mi interessano entrambi, per cui sono contento di questa gitarella mattutina.
La Grande Guerra avrebbe potuto raccontarmela bene mio nonno paterno, che era del 1893 e aveva prestato servizio come farmacista, proprio come il poeta Georg Trakl. Solo che ero ragazzino, quando mio nonno era vivo, e la storia la studiavo già a scuola, per cui mi sembrava davvero troppo stare pure a sentire i fatti di guerra che ogni tanto mio nonno tirava fuori. Ma è davvero curioso: a sedici anni io scoprii le poesie di Trakl. Furono proprio quelle poesie a farmi venir voglia di provare a scrivere e i dati biografici del poeta mi interessavano tanto quanto le poesie: Trakl era un poeta maledetto di provincia e io stavo diventando un aspirante poeta maledetto di provincia. Adesso però non capisco come allora non abbia subito notato il legame tra l’esperienza di guerra di Trakl e quella di mio nonno Nigi. Esattamente la stessa: curare i feriti del fronte. Ma mai una volta che abbia chiesto a mio nonno di raccontarmi qualcosa. Trakl era dell 1887, morì suicida nel 1914, esasperato dalla carneficina continua che gli si presentava davanti agli occhi. Mio nonno era sopravvissuto alle Ardenne, aveva messo su famiglia e aperto una farmacia. È morto nel 1985 un mese prima della moglie, nata nel 1890. Forse, ai miei occhi di aspirante poeta maledetto di provincia, questi due diversi esiti erano così incompatibili da inquinare l’evidente origine comune. Avevo a portata di mano una persona cara che poteva portarmi una testimonianza diretta del più grande massacro della storia e l’ho lasciato andare senza mai interessarmi.
La misoginia, invece, è uno scherzo tra me e Paolo. Le babe sono il nostro argomento preferito: elenchiamo in continuazione episodi in cui siamo stati vittime della dialettica spiazzante di una baba, dell’irrazionalità mascherata da responsabilità che le babe ostentano sempre oggidì. Intanto Paolo cerca con la testa e poi dice: “Ecco. Ci siamo!” Accosta di fianco a un portone aperto che dà su un grande cortile. “Vedi questa frasca d’alloro? Qua c’è una privata!”. Attraversiamo il cortile e incontriamo un uomo che fa la strada inversa alla nostra: sta uscendo dalla privata e lo fa cautamente, mettendo un piede dietro l’altro, i nostri occhi si incontrano un attimo e ci scambiamo un velocissimo cenno di saluto col capo. Ha la pelle color rosso scuro, la pelle dell’avvinazzato. Paolo mi fa segno col mento, come dire: “Visto?”.
La privata è in una specie di magazzino o garage grande, dentro ci sono cinque tavolini e un sacco di sedie. Dietro un bancone improvvisato, c’è il contadino in canottiera e occhiali spessi che serve il vino dalla damigiana. Sulla damigiana c’è un cartello con su scritto Bianco o Rosso. Ho visto anche mettere delle iniziali vicino all’indicazione generica. M, che sta per Merlot. S, che sta per Sauvignon. Non possono chiamare il vino che fanno Merlot o Sauvignon per via delle DOC, dunque si arrangiano così. Alle dieci e un quarto del mattino è pieno di gente. Essendo un mercoledì, mancano gli uomini in età da lavoro, e abbondano i pensionati. A un certo punto entrano tre ragazzi sui venticinque: operai del comune, hanno il camioncino parcheggiato fuori. Si fanno fuori tre bicchieri di bianco a testa, pagano e se ne vanno. Il vino costa seicento lire al bicchiere. Con diecimila lire ti bevi sedici bicchieri di vino, con diecimila e duecento te ne bevi diciassette. C’è gente che passa le giornate in privata e quando si alza deve avere l’impressione di averle spese bene, le sue diecimila lire. L’atmosfera è come quella di un coffeeshop olandese trasportato nella campagna giuliana. La gente viene qui per uno scopo solo. Se nei coffeeshop, oltre a fumare, ci si può anche bere un cappuccino, un frappé o un succo d’ananas, in privata si può solo bere vino. Raramente ti danno un uovo sodo, il più delle volte sei lì a stomaco vuoto e se non sei più che allenato, ti viene voglia di andare via dopo il secondo giro. I pensionati sono divisi a grandi gruppi di cinque o sei. C’è sempre uno che tiene il comizio e gli altri che ascoltano. Non giocano a carte: bevono e parlano e basta. Parlano di Berlusconi, anche qui, anche nell’angolo d’Italia più lontano dall’Italia.
5.
Poi vedo Manfrin, che si occupa degli alcolisti a Monfalcone. Per tutto il tempo prima dell’appuntamento mi faccio mille scrupoli: ci dobbiamo vedere in un bar del centro e io sono già visibilmente ubriaco. Paolo e io abbiamo visitato qualche privata e anche due ditte vinicole, abbiamo mangiato le sarde fritte al frittolino e poi io ho dormito due ore e ho fatto una doccia. Tutto inutile, sono cotto e farmi vedere cotto da un ex alcolista che si occupa di aiutare gli alcolisti mi sembra sconveniente. Poi però mi dicono che Manfrin non è per niente un ex alcolista, è uno che fa volontariato e basta. La cosa mi tranquillizza e anche la circostanza di parlare di alcolismo seduti al tavolino di un bar non mi sembra più così strana. Io, comunque, bevo una coca cola in due sorsate e mi mangio controvoglia mezza pizzetta scaldata al microonde. Manfrin non è alcolista, ma tabagista sì. Io sono così sottosopra che mi dà perfino fastidio il fumo di sigaretta all’aperto.
“Qui abbiamo alcolisti in percentuale maggiore che nel resto d’Italia. Pochi vengono da noi, la maggioranza vive l’alcolismo facendo finta di niente, ignorano il problema, le loro famiglie anche. Anzi, a volte, quando riusciamo a far smettere un padre di famiglia, i figli vengono quasi a lamentarsi: prima non dovevano mai avere a che fare col padre perché era sempre a lavorare o ciucco a dormire, dopo invece lui torna a far parte della famiglia e questo crea qualche problema nell’equilibrio che si era venuto a creare”.
La vita degli alcolizzati mi interessa da sempre e da sempre mi chiedo come riescano a trovare moglie e a tenerla con sé. Ci sono bravissimi ragazzi timidi non alcolisti, affidabili, magari solo un po’ noiosi, che rimangono soli per tutta la vita. I balordi che bevono e picchiano tutti, invece, sono sempre sposati. Ma chi se li sposa? E perché queste mogli non se ne vanno? Manfrin non ha una risposta, dice solo che i monfalconesi che si rivolgono alla sua associazione sono soltanto quelli che si sono resi conto di avere un problema. Ci sono poi quelli che non se ne sono resi conto e continuano a vivere in quel modo e anche loro hanno una famiglia che ignora il problema, ci convive, si abitua, lo rimuove del tutto. “Ci sono uomini e donne alcoliste, quelli che si rivolgono a noi sono tra i quaranta e i cinquant’anni, i giovani che lo sono potenzialmente si accorgono di esserlo dopo quindici – vent’anni di alcolismo…”.
Nelle private che ho visto l’età media è alta, oltre i sessanta, tra di loro ci sono persone che non se ne accorgeranno mai, di essere dipendenti dal bicchiere di vino; danno per scontato che la loro vita sia così, sanno ma fanno finta di non sapere, che poi è l’unico modo per convivere con la propria sacrosanta dipendenza. Le statistiche sono un bel pretesto per parlare di niente: ci pongono di fronte ai paradossi dei numeri applicati alle attività umane. L’aneddoto che tutti conoscono recita che in Svezia vi sia il più alto tasso di suicidi in Europa. Il paradosso sta nel fatto, evidente, che la Svezia è un posto in cui si vive bene, una socialdemocrazia europea, altro che. E allora tutti a cercare spiegazioni ai suicidi: che faccia troppo freddo? che il benessere materiale non abbia nulla a che spartire con quello mentale? La stessa cosa la possiamo dire su Monfalcone, sul bellunese, quelle aeree di Italia del nord est che primeggiano tutti gli anni nelle classifiche dei bevitori cronici. Se il bellunese, coi suoi paesini stretti tra le montagne, potrebbe anche avercela in sé, una spiegazione, Monfalcone e la Bisiacheria sorprendono: c’è lavoro (duro) nei cantieri, nelle vigne, ci sono collegamenti facilissimi con l’Italia e l’Europa, c’è il mare, c’è il Carso coi suoi vigneti privilegiati, c’è una regione, il Friuli-Venezia Giulia, in cui si vive bene e la gente è bella, più bella che nel resto d’Italia. Il discorso si deve interrompere senza dare risposte. Le cifre parlano chiaro. Non è detto che alcolismo sia uguale a disperazione, forse esiste un alcolismo culturale, che si trasmette non da padre a figlio ma da amico ad amico, c’è un modo di vivere, di frazionare la giornata, dietro questi alcolisti pentiti che vanno da Manfrin a smettere. Modo di vivere e di frazionare la giornata che forse deriva dal territorio, dall’ambiente, dagli austriaci e dagli slavi. Magari non c’è infelicità estrema, dietro tutto questo, magari c’è qualcos’altro. C’è la convivenza con un vino buonissimo, che può anche risultare fatale. Si prenda l’individuo medio scozzese: beve whisky in quantità per noi impensabili e perché? Perché ha il whisky migliore del mondo. Convivere con una potenza della natura come il vino buono non è facile, non lo è mai stato.
6.
A Sagrado, ai piedi di una collinetta, c’è questa villa rinascimentale bellissima, circondata dal verde di un parco e dai vigneti. Mi spiegano che apparteneva alla nobiltà austriaca, ai Turm und Taxis, e che adesso è un’azienda agricola. Durante la prima guerra mondiale, proprio da quassù dove siamo noi adesso, l’esercito italiano aveva un suo punto di comando. Ci stavano gli ufficiali, beati loro, mentre i civili della zona erano sfollati ad aspettare che tutto finisse. Ci indicano una quercia secolare, tutto qua intorno sembra provenire da un passato ineguagliabile.
In cima alla collinetta il panorama è spettacolare. La giornata non è delle migliori, eppure lo sguardo riesce ad arrivare fino a Grado da un lato e fino alle Alpi dall’altro. Questo è il Carso, mi dicono. Rocce, terra rossa, sparuti arbusti gialloverdi. I vigneti sono costruiti uno per uno. Costruiti perché si tratta di spaccare lo strato roccioso e di creare delle fosse larghe come un filare, da riempire di terra rossa prelevata poco lontano. Spaccano la roccia, caricano le macerie (pietroni grossi come me) sui camion, scavano la fossa, portano la terra rossa e riempiono la fossa. Prima di iniziare la coltivazione, la spesa è già di 60 milioni di lire per un vigneto di medie dimensioni. Ho subito capito che mi trovavo in un’azienda modello voluta da uno che non ha problemi di soldi. Hanno perfino qualche ulivo e fanno l’olio solo per loro. Ottimo, mi dicono. Chiedo perché si sono messi in testa di piantare la vite dove c’è la roccia. “Per via della posizione. Terra rossa carsica più aria di mare uguale vino favoloso”. Giusto, non fa una grinza. Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Refosco, Malvasia Istriana (bevuta una bottiglia in due alle undici del mattino a stomaco vuoto), Terrano (con l’anguilla dicono sia speciale), Sauvignon. Vini rossi e bianchi che esistono lì grazie a ruspe, camion e alla fatica dell’uomo.
Le aziende modello non sono altro che aziende dove si fa tutto quello che si deve fare. Le altre aziende, quasi tutte, sono luoghi in cui si fa tutto quello che non si dovrebbe fare ma lo si fa in modo furbo, sempre al limite minimo di qualità e massimo di resa. Fare tutto quello che si deve fare su larga scala è impossibile, ma questo è un podere piccolo, si presta bene allo scopo. Fa piacere vedere l’ordine, la pulizia, la pacatezza nel dare ordini. Sembra che la fretta piemontese che ammazza la gente qui non abbia attecchito, sembra che il ritmo lo dia ancora la natura. Mi dicono ancora che sotto la terra carsica c’è una gran quantità d’acqua e che questa viene usata per irrigare i vigneti. Irrigazione a goccia, la chiamano. Fino a cinque litri d’acqua all’ora per dodici ore garantiscono autonomia idrica al vigneto per una settimana. Mi fanno vedere come funziona, capisco poco ma mi piace l’idea. Mi rallegra vedere questo gran dispendio di danaro per tirarne poi fuori poche bottiglie di vino buono, mi mette di buonumore, sono contento che ci sia gente ricca, gente che sta bene, che decide di investire un po’ del suo capitale in un’azienda agricola. Sarò un monarchico mezzo fascistoide, quando penso così, ma il vedere tutti questi lavoranti agricoli che lavorano in campagna per un miliardario mi fa tornare in mente un tipo di società ottocentesca che funzionava bene. Aristocratico e paternalista finché volete, ma funzionava. I braccianti, se non fossero qua dal miliardario, dove sarebbero? In fabbrica a farsi trattare male da un caporeparto. O ai cantieri navali a farsi un culo così.
La casa di un custode della villa è andata a fuoco la notte prima. Andiamo a vedere e troviamo due ragazzi, fratello e sorella, biondi. I genitori, che abitano in quella casa, sono alle terme in Slovenia e non sanno ancora niente. I ragazzi indossano guanti di gomma e hanno portato fuori i mobili bruciacchiati, gli attaccapanni, le sedie, la gabbia col canarino. Parlano con il nostro cicerone, un signore molto calmo e abbronzato, ben vestito ma sportivo, trevigiano trapiantato a Sagrado. Dentro la casa i muri sono tutti neri, particolarmente in una stanza, dove non si è salvato niente. Andare in ferie, tornare e trovare la casa bruciata: l’incubo che mi tormenta sempre quando sono incline a farmi sopraffare dalla paranoia. A questi poveri cristi di custodi è toccato questo e, se non si faranno vivi al telefono prima, al loro ritorno troveranno qualcuno che li aspetta con la faccia preoccupata per dir loro che la casa dove hanno vissuto per anni ha preso fuoco.
7.
Il vino che mi sono portato a casa è un Cabernet Franc molto buono. L’ho preso in un’azienda che ha un punto vendita stranissimo: si va lì con le damigiane o con le bottiglie e si spilla il vino dalle botti. E fin qui tutto normale. Il fatto è che ci sono anche albicocche e meloni, pesche, verdura. Tutto al minuto. Tutto di produzione propria. Sembra incredibile, ma è tutto un viavai di clienti. Una baba giovincella arriva con due pintoni, li riempie di rosso, paga e se ne va. Ho anche visto, in extremis, un’azienda piccolissima, retta da un contadino simpatico. Quando sono arrivato stava incollando a mano le etichette sulle bottiglie. Erano le undici del mattino e la cosa mi ha riempito di pace. La radio era sintonizzata su un canale di musica classica e abbiamo bevuto un bianco non freschissimo ahimè, ma buono.
Poi sono partito. Nel viaggio di ritorno sono riuscito a chiudermi fuori dalla macchina e ho mangiato un mucchio di nervoso. I danni che ho fatto per scassinare la portiera della mia stessa vettura sono lì ancora evidenti. Sono diventato la star dell’autogrill di Padova per un’ora e mezza. C’erano sei o sette curiosi che sono stati lì tutto il tempo per vedere se ce la facevo. Poi ce l’ho fatta.
EPILOGO
Ero bello ciucco, alla fine di una cena un po’ di tempo fa, ciucco di vino di Monfalcone, e mi è tornato in mente il povero Manfrin, che lotta con tutte le sue forze contro il cancro dell’alcolismo. Lotta contro la tendenza dell’uomo a lasciarsi soggiogare dall’ebbrezza. Ero ebbro, mentre pensavo a Manfrin, e mi veniva anche un po’ da ridere. Ero ebbro e stavo bene e il resto non contava.
(Questo testo è apparso per la prima volta nel numero 18 della rivista “Il Territorio”, Rabdomanti a Monfalcone e dintorni, 2002. Ringraziamo il Consorzio Culturale del Monfalconese per la gentile concessione. Le foto a corredo sono di Paolo Bonassi).
1Babe: “Donne” in dialetto bisiaco. L’origine della parola va cercata nell’area linguistica slava.