La sirena di un’ambulanza si fa largo nel silenzio ventoso della mattina. L’ascolti e provi a ricordare dove hai già sentito quella tonalità ovattata, soffocata che si diffonde a tappeto: forse in certi polizieschi francesi anni Sessanta. Il sole è basso all’orizzonte, la luce tagliente. Dal tetto dell’hotel Africa – un palazzo di 78 metri inaugurato nel 1971, tutt’ora il più alto della Tunisia – lo spettacolo è assoluto. Si vede tutta la città e oltre: verso est la laguna e il Mediterraneo chiuso dal profilo del Diebel Boukornine che pare il Vesuvio; verso sud le ultime alture della dorsale tunisina. Sotto, Tunisi, bianca e formicolante, si risveglia. Vista da quassù è affascinante. Vista dalla strada, non è da meno. Sembra una cartolina trovata tra la pagine di un libro che non sfogli da decenni, una distesa monocroma di case bianche, addossate le une alle altre, alte uguali, tutte bisognose di restauro. C’è una patina di incuria maledettamente accattivante e non sai se è colpa della salsedine, del sole d’Africa o della storia. Camminando lungo l’ampia avenue Bourguiba, facendo lo struscio nella passeggiata alberata, ci si imbatte in ministeri ben vigilati, teatri fastosi Art Nouveau, grandi alberghi brutalisti, gallerie commerciali, bar con banconi in zinco che servono birra, pasticcerie con cascate di dolcetti appiccicosi, librerie trilingue, negozi di vestiti, cellulari e profumerie. Un intenso brulicare di vita di strada da Sabato del villaggio e invece è un lunedì mattina di inverno. Se ci si addentra nelle vie laterali, verso la stazione o la Medina, è ancor più intensa: le strade rispettano le antiche divisioni merceologiche, per cui i materassai sono tutti uno dietro l’altro, i macellai nella stessa via, i venditori di pesce in un’altra. E poi ci sono certi bar, in cui fermarsi per un caffè o sorseggiare un tè troppo zuccherato e fare quello che sembrano fare tutti: osservare la vita che scorre.