Se Peter Reyner Banham ha dovuto imparare a guidare l’auto per leggere Los Angeles, per apprezzare Utrecht è sufficiente una bicicletta. A patto di prendere confidenza con lo strano modo che si usa qui per frenare e possibilmente fermarsi: pedalando all’indietro. Una volta acquisita familiarità con questo meccanismo, però, è come se il paesaggio di Utrecht si srotolasse lungo le ciclabili, disvelando l’aspetto più intimo del quotidiano olandese. Le grandi vetrate delle case lasciano entrare raggi di sole che scaldano più di quanto si possa immaginare e le tende sembrano rappresentare solo colonne decorative ai lati delle finestre. Il buio nella bella stagione è clemente e concede più ore al giorno, ma quando giunge esalta ancora di più il colore ambrato delle luci che si diffonde sugli oggetti domestici. Incurante di essere visto dai passanti, in un soggiorno c’è un anziano assopito su un divano bianco, nella casa accanto due signori che cenano all’ora in cui noi forse berremmo solo un tè caldo, poi una signora intenta a lavare i piatti. Nessuno fa segreto di quello che avviene all’interno e ogni ambiente ha un’aria così rilassata e accogliente da riuscire a sospendere, nel tempo di ogni tragitto, ogni turbamento. Lungo alcuni canali galleggiano ninfee che mediano il passaggio dall’acqua alla zona verde che definisce le rive, dove fiori ed erba alta sembrano seguire il tipico ordine nordico nel loro crescere spontaneamente. Devono avere un rapporto confidenziale gli abitanti di Utrecht con l’acqua, e i canali non sembrano spazio sottratto al vivere, ma evidentemente lo stimolo per farlo in modo diverso. Ci sono case che poggiano delicatamente sull’acqua, sembrano abitazioni qualsiasi e non so se possano navigare, ma a me piace pensarle così, come certi animi nomadi che non hanno fondamenta radicate in un solo suolo.