Tardo pomeriggio di fine estate all’isola del Giglio. Sei appena uscito dall’acqua, i piedi fanno presa sulla grana grossa della baia della Caldana. Era confortevole galleggiare sopra la posidonia su un’autostrada di castagnole ma ora l’aria è fredda, una flottiglia nuvolosa gira sull’arcipelago senza aver deciso dove scaricarsi. Ti senti addosso quel senso di misterioso Mediterraneo che equalizza le percezioni in una sinestesia. I vapori della macchia – cisto e fichi, mirto, rosmarino, aghi di pino – si mischiano al suono ipnotico della risacca, la salsedine ai chicchi di granito pronti a diventare sabbia. Ma sono gli occhi a rimanere attoniti: un attimo prima non c’era e adesso c’è, sali su una roccia incredulo, è proprio lui, l’arcobaleno che si fa e si disfa e attraversa i cumulonembi mantenendo intatto il suo vestito. L’Argentario, incorniciato da quella aureola, finge di essere un’isola e perfino Giannutri solleva dall’acqua il dorso di rettile per guardarlo stupita. È la magia dell’isola piccola, l’improvviso mutare del paesaggio al vento, il tempo che prevale sullo spazio. Dopo sette anni di effimero boom regalati dalla fiction della Costa Concordia, il Giglio è tornato un miraggio boscoso, almeno fuori stagione: niente discoteche né cinema, niente megastore, librerie, scuole superiori. Un disco di granito dai contorni sfumati, dove tutto può accadere. Le nuvole corrono veloci adesso e inghiottono l’Argentario ma il tempo rallenta, mette a distanza pensieri, doveri, aspettative. E ora che sembrano così nitide provi a guardarle da tutti i lati, da sotto e da sopra e in qualche altro modo ancora, come ti ha insegnato Joni Mitchell in una vecchia canzone. Ma no, come ogni volta le nuvole, specchio del nostro vulnerabile destino, della malinconia di fine estate per le cose lasciate indietro a qualche bivio, le nuvole non le conosci affatto.