Il tiro alla fune! Mi viene in mente questo gioco archetipico mentre avanzo sulla sabbia farinosa di Chowara, profondo sud dell’India, osservando in lontananza una fila di persone protese a tirare. La partita dev’essere iniziata all’alba, come ogni mattina. A un capo della corda ci sono una ventina di pescatori keralesi. All’altro capo una rete immensa da tirare a riva lottando con sua maestà l’oceano – il Mar Arabico che poco prima di confluire nell’Oceano Indiano, sulla punta meridionale del subcontinente, sferza il litorale con un’onda lunga, seguita da una minacciosa risacca. Un’imbarcazione rosso-azzurra con la prua appuntita se ne sta poco oltre i cavalloni, a dondolare tranquilla sorvegliando le operazioni. La fila di pescatori invece parte dall’acqua e risale la spiaggia per un buon tratto. Sono una ventina, di tutte le età. Vecchi pelle e ossa in dhoti (il pezzo di stoffa legato in vita che costituisce ancora, nell’India rurale, il tradizionale surrogato dei pantaloni) accanto a giovani muscolosi dai capelli ingellati, baffuti capisquadra che a turno dettano i ritmi con comandi secchi, ragazzini indolenti con la maglietta di Cristiano Ronaldo. I primi quattro o cinque uomini lottano con il moto ondoso immersi fino al collo, cercando – oltre che di sopravvivere – il momento giusto per smuovere le reti dal fondale sabbioso con l’aiuto della corrente. A un certo punto il primo della fila esce dall’acqua e risale lentamente la fune rimettendosi a tirare in ultima posizione. La rete viene su un centimetro alla volta. È un lavoro di squadra e pazienza. O forse è la straordinaria capacità di sopportazione degli indiani, che il Nobel per l’economia Amartya Sen sintetizzò in una raggelante definizione tratta dal Dizionario del diavolo di Ambrose Bierce: «La pazienza è una forma minore di disperazione travestita da nobile virtù». Anche gabbiani e corvi aspettano, senza fretta.
Sono venuto in Kerala, come tanti, richiamato dal culto dell’Ayurveda, l’antichissima disciplina che studia il giusto equilibrio fra i tre dosha, le energie vitali regolatrici del nostro benessere: vata, pitta e kapha. Secondo la leggenda, risalgono a cinquemila anni fa le otto famiglie da cui discendono i Vaidya, i medici che per primi, in queste foreste, codificarono l’ayur (vita) veda (conoscenza). Cioè il corpus di rimedi naturali basati sull’uso mirato di erbe, metalli purificati, minerali, su una rigorosa dieta vegetariana e più in generale su un processo di riequilibrio e rigenerazione del corpo basato anche sulle tecniche di meditazione e sulla pratica dello yoga. È ciò che ancora oggi promettono, più o meno edulcorato ad uso degli occidentali, le numerose cliniche del Kerala, in trattamenti di durata variabile (minimo due settimane), spesso associati a una disintossicazione dal wi-fi. La crescita della loro popolarità è stata esponenziale negli ultimi vent’anni: con la benedizione di Dhanvantari, la divinità che presiede alle cure naturali, il turismo ayurvedico ha trasformato 38mila chilometri quadrati di giungla e backwaters nel tempio mondiale del benessere. Nella sterminata offerta di ospitalità, dagli spartani ashram ai mega resort all inclusive, ho scelto una struttura appollaiata su una rupe che guarda la lunga spiaggia e il villaggio sparso di Chowara, di fianco a un tempio indù che stanno rumorosamente ristrutturando.
Siamo una ventina di chilometri a sud dalla capitale Thiruvanantapuram e dalla sua celebre spiaggia a doppio anello, Kovalam, ex avamposto hippie riconvertito all’industria del benessere, popolato ancora oggi da qualche anziano capellone che potrebbe raccontarvi storie di mezzo secolo fa, quando “spa” era un termine sconosciuto e la pressione turistica lontana da venire. Chowara invece resiste: a parte qualche sparuta fila di ombrelloni di giunco in corrispondenza dei resort sulla collina, resta un litorale selvaggio. Per chilometri costituisce il perimetro esterno – o meglio una sua appendice – del villaggio disseminato nella giungla di palme, che solo una strada malmessa divide dalla spiaggia. Al mattino la vita ruota attorno al mercato, un blocco di cemento appoggiato sull’arena, fuori luogo e fuori scala. Sul ciglio della strada si riparano a mano reti da pesca e motori, si vendono noci di cocco, sigarette, birra e sardine, palloni da calcio e schede telefoniche, ci si scambiano pareri elettorali appoggiati a murales color fucsia con i simboli stilizzati del partito comunista locale (falce e spiga!). Scooter e bufali, motorisciò e vacche, capre e biciclette sono parcheggiati gli uni accanto agli altri.
Il caos organizzato dell’India è sfiancante ma ha qualcosa di magico, ancestrale, decadente. La parola assembramento, entrata oggi nel nostro vocabolario quotidiano come una minaccia (da evitare anche per legge), fa sorridere in un luogo dove si condivide ogni centimetro di spazio. Questa bulimia di vita mi risucchia come se l’avessi conosciuta e perduta a un certo stadio del samsara, il ciclo delle rinascite, così dopo qualche giorno nell’atmosfera silenziosa, rigenerante, spirituale, asettica del centro ayurvedico sento che mi fa bene scendere a respirare un po’ di salsedine e decomposizione. Ma appena estraggo il telefonino per documentare il rito millenario della pesca mi assalgono domande e pensieri. Davanti alla mia lente c’è tutta la sfasatura sociale, economica ed esistenziale dell’India contemporanea. Quella sfasatura descritta da Arundhati Roy, che è originaria proprio del Kerala, dove ha ambientato Il dio delle piccole cose. Al “mondo di sopra” pubblicizzato dai media, quello dei salotti e dei cavalcavia, dei resort e dei centri commerciali, della tigre economica che, almeno prima del drammatico stop imposto dalla pandemia, ruggiva sulle riviste patinate, si contrappone un “mondo di sotto”, non asfaltato, fatto di baracche e paludi, binari della ferrovia, discariche, dormitori promiscui di persone, animali e insetti. Geografia di una distanza abissale e senza scampo, ancora sancita per nascita secondo l’assetto gerarchico di ordine naturale-teologico su cui si fonda la millenaria cultura brahmanica: il sistema delle caste. Ma è poi così diverso nel resto del mondo? Qui almeno ci sono i miti colorati dell’Induismo a offrire un senso ai diseredati – e a giustificare in fondo le colossali disuguaglianze. Eppure il Kerala spicca nel subcontinente dal punto di vista sociale, antropologico, culturale. Nei suoi frastagliati mosaici terracquei stuoli di ragazzini in divisa aspettano ogni giorno un barcone statale che li porti a scuola. È lo Stato indiano con il più elevato livello di alfabetizzazione, superiore al 90 per cento. E sarà forse anche per questo, oltre alla mitezza dei keralesi, che da queste parti Induismo, Islam e una piccola fetta di cattolicesimo, eredità dei padri pellegrini in epoca coloniale, convivono pacificamente da secoli.
Intanto in spiaggia voci concitate mi strappano ai dilemmi (l’autocommiserazione del viaggiatore che guarda nel medesimo specchio la sua fortuna e le ingiustizie del mondo, un vizio in cui in India è difficile non cadere). La forza del mare ha ceduto a quella delle braccia e la grande rete viene adagiata sulla sabbia, con i pesci che ancora vi saltellano dentro facendola sembrare una girandola argentata. I pescatori formano un cerchio e si mettono a dividere il pescato. A giudicare dalle facce scure, è deludente. Alcuni se ne vanno subito verso la giungla accendendosi un beedie, con il loro bottino ancora guizzante fra le mani. In senso contrario dal ciglio della strada cominciano ad arrivare le donne, portando grandi recipienti di latta in equilibrio sulla testa. Si siedono con calma sulla sabbia a gambe incrociate e per un po’ restano impassibili a osservare la scena, mentre il caposquadra impila il pesce cantilenando in malayalam come a una battuta d’asta. Quando i prezzi hanno cominciato a scendere – o almeno così mi pare – inizia la vera contrattazione, alcune acquistano l’occorrente per il pranzo, altre caricano sulla testa qualche chilo di sardine che rivenderanno al mercato, altre se ne vanno a mani vuote. Non girano soldi, passeranno più tardi i fratelli o i mariti a saldare il conto oppure gli stessi pescatori avranno una percentuale della vendita al dettaglio? Lascio la compagnia mentre corvi, gabbiani e piccoli cormorani si ingozzano di scarti, un pasto abbondante rimediato senza fatica. Tornerò al tramonto, l’ora più bella, quando la spiaggia diventa una sterminata piazza festante dove ci si dà appuntamento per l’ultimo saluto al sole.