Un filmato dell’Istituto Luce mostra i lavori di costruzione del Palazzo di Giustizia di Milano. I carpentieri si muovono in un bosco di travi mentre una musica in sottofondo trasmette concordia e operosità. Era il 1932, il codice penale fascista risale al 1930: vi si emisero, insomma, anche condanne a morte. Per far posto al tribunale vennero demoliti non solo una caserma, ma anche un convento e una chiesa. Forse per questo la coppia di pilastri che ne spartisce il portale crea tre varchi: ai condannati a morte che li osservavano dalla scalinata devono aver ricordato le croci sul Golgota. Ai lati, finestroni come baratri mostrano lo spessore delle mura. Sono sei per parte, come gli apostoli all’ultima cena: più che a illuminare paiono destinati a dissuadere dal ricorrere in Appello.
Adesso all’ombra di quella facciata una siepe e una striscia di aiuole provano a non appassire. Insieme all’indicazione dei posti liberi nei parcheggi, contribuiscono a sottrarre sacralità al palazzo. Un tribunale, in fondo, è fatto anche di burocrazia: di scadenze, di notifiche, di timbri. E quella scalinata può sembrare una cascata d’inchiostro. Quello che ogni giorno dal palazzo si riversa su testimoni, assolti, condannati, vittime, complici (latitanti compresi). Ciononostante quello di Milano resta il tribunale per antonomasia da più di trent’anni. Fu da lì che trapelarono le indagini sulla “Milano da bere”: quella dietro l’angolo, da Piazza Fontana al Duomo e oltre. Quella dalla quale il Palazzo di Giustizia si distingueva, granitico come le accuse mosse ai potenti. Gli inviati in TV ne riferivano i dettagli mentre alle loro spalle il tribunale incombeva tetragono. Un oltraggio, pareva, lo sferragliare del tram.

Di notte, la luce dei lampadari del vestibolo giungeva ben oltre la vetrata dell’ingresso, fin quasi al chiosco del fioraio di fronte. Dava l’impressione che le indagini, gli interrogatori, l’incrocio di dati continuassero febbrili. Che in qualche ufficio si battesse a macchina mettendo a verbale confessioni singhiozzate al caldo di una lampada puntata in faccia. Tutta la struttura, quasi un cubo di pietra, poteva sembrare un tomo da ciclopi, una summa di codici e testi unici. Altre volte lo scuro del mezzanino alla base si confondeva col buio facendo apparire il resto del palazzo quasi a mezz’aria. Allora l’edificio ricordava un quadro di Magritte, o una navicella spaziale.
Oggi nessuno guarda più ai magistrati come extraterrestri venuti a salvarci. Si è esaurita la speranza di una palingenesi. Ne fu espressione un film di Nanni Moretti dedicato a un rettile, che termina proprio sui gradini del tribunale: i giudici incespicano, le forze dell’ordine arretrano, incalzate dalla folla. La sequenza, quello che si direbbe un esterno notte, con tanto di fiamme, è la scena madre del film. I soliti riferimenti puramente casuali, almeno fino a circa quattro anni fa, quando un incendio distrusse parte della cancelleria e dell’archivio. Cinque anni prima un imprenditore era entrato nell’edificio armato di pistola e aveva ucciso tre persone.
Il Palazzo di Giustizia non incute più timore. Le sue luci, di sera, non danno più l’idea di alacrità ma di essere state dimenticate accese dall’usciere. Potrebbe allora sembrare in disarmo, il tribunale di Milano, e suscitare riflessioni sui regimi. Costeggiarne i 30.000 metri quadrati della base potrebbe far divagare. Ricordare quando parole come “iustitia”, lì all’apice della facciata, si stagliavano lapidarie. O magari osservare le epigrafi in rilievo, appena più in basso, e chiedersi se davvero il diritto è naturale. Invece, sarà che le scritte in latino non le decifra più nessuno, ora davanti al palazzo si passa senza farci caso. A vederlo, meneghino e bianchiccio, pare un tocco di gorgonzola.