L’autobus bianco, rosso e blu con l’insegna “Kladno” deve ancora avvicinarsi alla pensilina numero 1 della stazione di Nadrazi Veleslavin che le poche persone con noi in attesa (perlopiù giovani studenti e massaie con piccole sportine di stoffa in mano) si mettono silenziosamente in coda lungo il marciapiede. Le seguiamo anche noi, quasi intimoriti dal non rispettare il preciso ordine di arrivo che tutti qui sembrano aver scrupolosamente memorizzato. Alla parola “Lidice” l’autista grassoccio, con addosso l’austera divisa delle autolinee nazionali ceche che mi riporta con la testa ai tempi della Guerra fredda, piega il capo con una smorfia. Mi siedo vicino al finestrino e guardo fuori mentre, muovendoci in direzione nord-ovest, verso l’aeroporto Vaclav Havel, attraversiamo una periferia incolore, dove i vecchi casermoni socialisti hanno man mano ceduto il posto a discount prefabbricati, vuote concessionarie di macchine occidentali e anonimi fast food. Non è la prima volta che mi ritrovo a pensare a come in fondo vicino alle grandi città sia sempre tutto uguale. Tra la “Pulkovskoye” di San Pietroburgo, i rettilinei stradali attorno all’aeroporto di Newark a New York e questa periferia praghese non sembra poi esserci tutta questa differenza.
In pochi minuti ci ritroviamo nel bel mezzo di una campagna verdeggiante. Lidice è un minuscolo villaggio incastrato tra sterminati campi di segale e frumento, pochi chilometri a nord-ovest di Praga. Ne ho letto la prima volta il nome parcheggiando sulla “via Lidice” a Marzabotto sull’appennino tosco-emiliano, prima di incamminarmi verso il cippo sulla sommità del Monte Sole. Il podcast “Morte di un nazista perfetto” registrato qualche anno fa da Claudio Visentin per la Radio Svizzera mi ha portato sulle tracce di questa storia. Una storia della Seconda guerra mondiale.
Nella dissolta repubblica cecoslovacca, inglobata nel Terzo Reich come protettorato di Boemia e Moravia dopo la conferenza di Monaco del 1939, governa con ferocia Reinhard Heydrich, terzo in grado nella gerarchia nazista. A Londra però sopravvive un simbolico governo repubblicano. È presieduto dall’ex presidente Edvard Benes che, come reazione al regime di terrore di Heydrich, si convince di dover mettere in atto una vera operazione militare, inviando un’unità di paracadutisti. L’obiettivo è provare a compiere un’azione clamorosa ed esplicitare al mondo libero la vitalità della nazione cecoslovacca e la scelta di campo antinazista.
Il 27 maggio 1942 a Praga è una calda giornata di sole ma due ragazzi poco più che ventenni, Jozef Gabcik e Jan Kubis, un ceco e uno slovacco, escono di casa con addosso un impermeabile. I passeggeri sul tram che porta fuori città in direzione nord-est li guardano stupiti ma non immaginano che dietro quegli insoliti cappotti fuori stagione si nascondano un fucile inglese, lo Sten, e altre piccole armi, tra cui un’artigianale bomba a mano. Scendono alla fermata sulla curva di via Holesovice, un tratto di strada in salita dove le poche auto dirette al centro di Praga sono costrette a rallentare, e aspettano. Heydrich passa tutti i giorni di qui per andare “in ufficio” (il Prazsky Hrad, il castello sulla collina di Praga sede del governo nazista) dalla sua residenza di Panenske Brezany, fuori città. E quando compare la Mercedes nera che come previsto frena proprio in quel punto, Gabcik si mette in mezzo alla strada, estrae lo Sten e spara. Ma non succede nulla, il fucile è inceppato. Tutto si ferma per qualche decimo di secondo, i passeggeri di un tram che proprio in quel momento sta passando lì a fianco si affacciano impietriti. Heydrich si alza in piedi e sfodera la pistola. Non fa in tempo a sparare. La bomba a mano di Kubis atterra accanto alla ruota posteriore destra ed esplode.
Gli attentatori scappano, Heydrich non sembra aver subito danni irreparabili ma subito la ferita si infetta, i crini del sedile della Mercedes sono penetrati nell’addome. La penicillina nel terzo Reich non c’è e la morte sopraggiunge il 4 giugno. La Gestapo scatena subito una violenta caccia all’uomo in tutta la regione che almeno inizialmente sembra non portare a nulla. I paracadutisti sono al sicuro, rifugiati grazie al sostegno della resistenza ceca nella cripta sotto la chiesa dei Santi Cirillo e Metodio, tra le tombe dei monaci. Verranno stanati solo il 18 giugno, a quasi un mese dall’attentato.
Nel frattempo la cittadina di Lidice finisce insensatamente per essere la vittima sacrificale. “Quello che volevo fare l’ho fatto. Sto bene, verrò a trovarti questa settimana e poi non ci rivedremo mai più”. Sono le parole di una banale lettera d’amore indirizzata a Anna Maruscakova, una giovane operaia della vicina Slany, a portare le indagini della polizia locale su una pista che, seppur palesemente falsa, conduce all’accusa di complicità con l’attentato di alcuni ignari cittadini di Lidice. Nella tarda sera del 9 giugno 1942 il villaggio viene circondato da uomini con l’uniforme della Schutzpolizei venuti apposta da Halle an der Saale, la città natale di Heydrich. Gli abitanti sono strappati al sonno con violenza. I 173 uomini vengono radunati in una fattoria e uccisi a turno, a gruppi di 10, fino al mattino. Le 198 donne si separano dai propri figli per essere inviate nei campi di concentramento polacchi. I bambini sono condotti al campo di sterminio di Chelmno. Solo i 17 (di 99 totali) giudicati idonei alla germanizzazione sono risparmiati e adottati da famiglie tedesche. Su tutta la zona, chiusa da un filo spinato, viene cosparso del sale sul terreno, il nome Lidice scompare dalle mappe geografiche ufficiali.
Da Praga il viaggio in autobus è breve. La fermata è all’incrocio di due rettilinei che si perdono nell’orizzonte della campagna. Siamo gli unici a scendere. Sotto un cielo grigio che non minaccia pioggia, percorriamo a piedi il breve tragitto della deviazione che porta all’ingresso del villaggio di oggi, ricostruito alla fine della guerra vicino a dove sorgeva la vecchia Lidice. Entriamo sulla 10 cervna 1942 (10 giugno 1942), l’arteria principale, un lungo viale alberato ai cui lati sorgono piccole ma ordinate casupole di mattoni. Non vediamo nessuno, tutto è muto. Ma i giardini sono ben curati con siepi folte e lussureggianti in attesa della fioritura primaverile, a terra piccoli e colorati giocattoli sparsi disordinatamente. Percorriamo tutto il viale con la sensazione di essere continuamente inseguiti da sguardi, come se i pochi abitanti, a cui la storia ha insegnato ad avere paura degli altri, ci continuino a guardare, da dietro le finestre, scostando un poco le tende, per non farsi vedere. Arriviamo all’incrocio con la Marzabottskà ulica (che bello questo incrocio toponomastico) da dove l’unica insegna stradale ci conduce alla Lidicka Galerie, un grande edificio giallo in stile neoclassico costruito negli anni Cinquanta per essere la kulturni dum del villaggio (la versione locale delle sovietiche “case della cultura”). Da maggio a ottobre ospita esposizioni d’arte locale. O almeno così è scritto, oggi sembra solo una scatola vuota priva di vita. L’unica porta aperta sulla piccola palazzina alla destra dell’edificio principale conduce nel bar ristorante della zona. Dietro al bancone ci accoglie, sorpresa, una giovane barista. Non sorride ma viene comunque verso di noi. Parla solo in ceco. È ora di pranzo, a gesti ci accordiamo per sederci vicino ai 4 anziani del posto che se ne stanno in silenzio davanti agli immancabili boccali di Pilsner Urquell. Grazie al minuscolo glossario della Lonely Planet che abbiamo con noi riusciamo a ordinare un piatto di formaggio fritto e un’insalata di rape rosse.
Dopo pranzo ripercorriamo il viale alberato per raggiungere all’altro capo del villaggio il memoriale dedicato alle vittime di questa vicenda, in apparenza un banale parco verdissimo con dentro un museo e una serie di statue. Raggiungiamo in mezzo a un piccolo bosco il monumento dedicato ai bambini. Raffigura le 82 giovane vittime dell’eccidio i cui occhi fissano smarriti lo spazio davanti, oggi vuoto ma un tempo occupato dalle loro case. La porta per il museo si apre sul cortile del complesso principale poco sopra il parco. All’interno sorprendiamo le due impiegate mentre pranzano con una ciotola di minestra portata da casa sul tavolo della piccola biglietteria. Hanno entrambe una sessantina d’anni, corpulente con capelli poco curati e uno sguardo sfuggente, quasi contrariato dal vederci arrivare. A malavoglia, pagato il biglietto di ingresso, ci fanno segno di entrare nella sala espositiva. La prima cosa che vediamo è una grande scritta sul muro, “A nevinni byli vinni” (E gli innocenti divennero colpevoli). Anche qui siamo soli, dentro un’enorme stanzone buio suoni e immagini (fotografie e proiezioni) raccontano la tragedia di quei giorni. Colpisce più di tutto il video trasmesso a ciclo continuo su un vecchio televisore a tubo catodico che riproduce le interviste delle madri sopravvissute mentre raccontano i momenti della separazione forzata dai propri figli.
È una giovane mamma che spinge una carrozzina anche l’unico incontro che facciamo sulla strada di ritorno uscendo dal parco per raggiungere la fermata dell’autobus che ci riporta a Praga. Il bimbo piange interrottamente, quasi sentisse il peso di quegli occhi senza luce che fissano il nulla.