“…Armeni non si può essere. Essere armeni è una cosa impossibile”. Continuo a pensare alle parole di Franz Werfel mentre guido tra gli aridi e assolati altipiani del nord-ovest armeno verso il villaggio di Musaler. Se sono arrivato fin qui è colpa di Luigi e di quell’ultima copia de I quaranta giorni del Mussa Dagh scovata tra gli scaffali della sua libreria, un romanzo potente che racconta una delle poche storie di sopravvivenza durante la vicenda dello stermino armeno. Siamo nel 1915, la prima guerra mondiale miete vittime, l’Impero Ottomano decide di procedere alla deportazione verso il nulla delle popolazioni armene che da sempre vivono nei suoi territori. Alle pendici della “Montagna di Mosè” (Mussa Dagh in turco, Musa Ler in armeno) nel nord-ovest della Siria ottomana gli abitanti di un gruppo di villaggi decidono di sottrarsi alla deportazione rifugiandosi sulla montagna. Hanno fortuitamente saputo che il fine della deportazione voluta dai Giovani Turchi non è la promessa di una nuova casa ma un viaggio nel deserto senza cibo né acqua, alla mercè di violenti zaptiè (i temuti gendarmi ottomani), preludio di una lenta e silenziosa eliminazione fisica. Sulla montagna ricostruiscono una vita di comunità dividendosi il poco cibo disponibile, organizzano un esercito di bottegai, farmacisti e agricoltori e resistono, con le poche armi a disposizione, per quaranta giorni agli attacchi turchi. Li salverà l’incrociatore francese “Jeanne d’Arc”, che transitando nelle acque davanti al golfo di Alessandretta avvistò sulla montagna la grande bandiera bianca con la croce rossa e la scritta “Christians in distress RESCUE”, e li portò nel rifugio di Port Said. Solo nel 1939 rientreranno nella nuova Armenia sovietica.
Musaler è la nuova casa dei discendenti di chi è sopravvissuto. La si raggiunge, arrivando dall’ovest del paese, attraverso la statale M5. E sebbene il cartello sulla destra dica “Erevan 12 km” attorno ci sono ancora solo pochi sparuti gruppi di piccole case e polverose stazioni di servizio. È solo grazie al navigatore satellitare che si capisce di essere arrivati e si intuisce che la piccola strada, priva di indicazioni ma asfaltata, è la deviazione per il villaggio. Si entra passando sotto un piccolo arco di pietra sulla cui esile chiave di volta in caratteri armeni la dicitura “Musaler, città di resistenza” è ancora solo in parte leggibile. È scritta con i sofferti colori della bandiera armena, il rosso (simbolo del sangue versato dagli armeni nella difesa della loro nazione), il blu (come un cielo privo di nuvole sotto il quale vivere finalmente in pace) e il giallo-arancio (richiamo al talento creativo di questo popolo). Il cielo, come sempre in questo afoso luglio armeno, è effettivamente blu e limpido ma inspiegabilmente una volta arrivati qui ci mette addosso una strana malinconia.
Musaler è un disordinato intreccio di strade perlopiù sterrate, case di mattoni circondate dai soliti grovigli di fili elettrici, tubature del gas a vista e piccoli campi agricoli delimitati da bassi muretti di pietra dove esili viti si arrampicano su pochi pali di legno inclinati. Vecchie Lada parcheggiate ai lati della strada e qualche frettoloso abitante che, complice i 42 gradi all’ombra, mette appena il naso fuori di casa e corre da una porta all’altra completano il paesaggio “urbano”. Non ci sono bar o ristoranti e apparentemente neppure spazi comuni destinati alla socialità. L’unico cartello stradale porta alla piccola cappella del Santo Salvatore (Amenaprkich), nascosta dietro una doppia fila di fitti alberelli sempreverdi che si affacciano sulla via principale; dentro la cappella un silenzioso guardiano avvolto nel forte odore d’incenso vende (qui come ovunque) le sottili candele di cera gialla che abbiamo trovato in tutte le chiese armene. Raggiungere l’hotel KA-EL, quello che Yandex.maps (la versione russa di Google maps) sostiene essere l’unico hotel della zona, richiede una buona dose di orientamento e tenacia. Ci aiuta con stanchi e annoiati gesti l’uomo sui sessant’anni che si palesa fuori dalla guardiola posta al lato del cancello in ferro dell’azienda agricola locale.
L’hotel non è che un’anonima palazzina di 3 piani fiancheggiata da un secondo piccolo edificio a un piano in stile motel americano, le camere sono cubicoli di cartongesso. Il balcone che sovrasta il cortile è vigilato notte e giorno da una corpulenta armena di origine russa, dallo sguardo vivace e indagatore. È lei a dirigere questo albergo. Raggiunge i nuovi arrivati con passi svelti e decisi con in mano un telecomando TV che prontamente consegna come un trofeo da custodire. Afferra una delle nostre valigie e ci accompagna senza dire nulla in quella che sarà la nostra stanza per l’ultima notte in Armenia. Non parla inglese ma quando intuisce che è possibile intenderci in russo ci chiede cosa ci spinge fin lì. Qui capitano al massimo per qualche ora i viaggiatori da e per la Russia che utilizzano il vicino aeroporto di Erevan come crocevia anti-sanzioni per raggiungere il resto del mondo. L’Armenia è uno dei pochi paesi a non aver adottato i divieti di viaggio nei confronti della Russia di Putin dopo l’invasione dell’Ucraina. Il governo di Erevan è storicamente legato a doppio filo con le sorti dell’Unione Sovietica prima e della Russia poi. Se oggi esiste ancora una terra dal nome Armenia e se la cultura e la lingua armena sono ancora cose vive sopravvissute ai tentativi turchi di annientamento è grazie alla protezione della “Rodina Mat”, la grande madre patria russa. E oggi in virtù di questa “Drùžby naròdov” (amicizia tra popoli, come recitava il vecchio inno sovietico) l’Armenia, così come la vicina Georgia, è diventata un transito obbligato da e per Mosca. È un’inaspettata occasione di arricchimento anche per la gente del KA-EL.
Per raggiungere quello che si racconta essere il museo-memoriale sulla vicenda che è all’origine di questo villaggio (ma che inspiegabilmente non abbiamo trovato sulle Lonely Planet e affini) richiede di ritornare sulla M5, inseguendo con lo sguardo a nord-ovest del villaggio la bassa collina sulla cui cima sorge una piccola torre in mattoni rossi. Il breve rettilineo della “Franz Werfel Strasse” conduce alla base della scalinata pedonale per il memoriale.
Costruito in pietra di tufo rossa a forma di torre non è solo un luogo di memoria “To the heroic self-defense battle of Musa Ler” (come recita stranamente in inglese l’iscrizione alla base della lunga scalinata) ma negli anni è diventato uno dei simboli nazionali della capacità di questo popolo di sopravvivere alle aggressioni della storia. A metà settembre ogni anno qui si celebra una delle commemorazioni nazionali più sentite e partecipate di tutta l’Armenia, il festival di Musaler. In quell’occasione le quattordici famiglie discendenti degli eroi della battaglia del Mussa Dagh offrono il piatto armeno per eccellenza, l’harissa, una specie di porrige denso a base di grano arrostito con l’aggiunta solitamente di carne di agnello. La stessa che nei giorni della resistenza permise agli Armeni di sopravvivere.Sul piccolo piazzale antistante la parte alta del memoriale, due giovani poco più che ventenni si abbracciano all’interno dell’unica macchina parcheggiata, l’ennesima Lada Zhigulì. Lei tiene orgogliosamente stretto in mano un piccolo mazzo garofani gialli. È un’immagine di inattesa vitalità che contrasta con l’inospitalità di quello che c’è attorno, l’arida e assolata distesa di sabbia e pietra, il caldo torrido e la luce abbagliante del sole accentuata dal riflesso quasi ustionante delle nevi perenni del monte Ararat.
Il paesaggio cambia non appena si varca il cancello in ferro battuto lì accanto. Si entra in un giardino stranamente verdeggiante, una sorta di oasi in questa pietraia assolata, ma dagli alberi troppo piccoli e smilzi per offrire un riparo all’ombra. Il sentiero attraversa un piccolo cimitero e conduce alla massiccia struttura della torre-memoriale, sotto la cui grande arcata trova riposo un solitario cane randagio. Ad entrambi i lati del grande arco, due brevi rampe di scale risalgono la struttura per unirsi davanti al massiccio portone dal quale si dovrebbe accedere alla sala-museo presente all’interno. È tutto chiuso, anche se il cartello in quattro lingue vicino alla porta promette un orario continuato dal martedì alla domenica. Ogni cosa invita ad andarsene il prima possibile. Ma ovviamente anche questo luogo ha il suo guardiano che compare da dietro la esile radura circostante. Si chiama Usanna. È una donna che veste insoliti jeans americani e una quasi elegante camicia in lino a quadri blu. Gesticola animatamente e ci urla in russo qualcosa che inizialmente non capiamo. “Kto vy? Chto vam nuzhno? Ya pridu!” (“Chi siete? Cosa volete? Sto arrivando!)”. Lo sguardo è inaspettatamente sorridente e accogliente e fa svanire l’iniziale timore e paura di aver violato un chissà quale inaccessibile sacrario armeno. “Ya tak garzhus vi zdes’!” (“Sono così orgogliosa che voi siate qui!”). La porta del museo (in realtà una stanzetta) si spalanca e l’interno si illumina con una vivace luce artificiale. Compare anche Esina, giovane armena di circa trent’anni che studia Lingue a Erevan e collabora da qualche anno con il memoriale come guida turistica. In un inglese scolastico racconta ai pochi turisti non russofoni la storia dei cinquemila del Mussa Dagh. La visita non è un granché. Ripercorre la vicenda con una lunga e noiosa rassegna di materiale fotografico dalla didascalia rigorosamente in armeno, che tuttavia aiuta a capire quanto Franz Werfel, nel suo romanzo, mescoli personaggi reali e inventati. Con delusione apprendiamo che Gabriele Bagradian, l’eroe del romanzo di Werfel, il comandante e leader carismatico di quei cinquemila armeni, non è realmente esistito. Nel romanzo, Bagradian, armeno di nascita ma francese di adozione, con la moglie francese e il giovane figlio tredicenne, si mette alla guida degli altrimenti arrendevoli armeni nella battaglia finale per la sopravvivenza. Me lo immagino camminare oggi qui, a Musaler, vedendo ciò che ne è seguito e incontrando i pochi schivi e disillusi abitanti del villaggio.