Tallinn e Riga sono collegate da una strada che corre dritta attraverso l’entroterra estone e, all’altezza di Pärnu, si accosta al golfo di Riga fino a raggiungere la capitale lettone. Pärnu non è propriamente una località turistica, uno di quei posti in cui si va di proposito. Forse è semplicemente uno di quei luoghi da cui non ci si aspetta molto, ma che in fondo, a modo loro, riserbano delle sorprese.
Anni fa presi un volo per l’Estonia, era febbraio. «Vieni, ce la giriamo un po’ in autostop», mi disse lui. «Se poi andiamo verso sud, rientro da Riga», risposi. L’idea mi esaltava, ma allo stesso tempo ero un po’ dubbiosa, mi chiedevo chi mai al giorno d’oggi avrebbe tirato su due autostoppisti. Comunque mi sembrava che le premesse per un viaggio interessante ci fossero tutte. Come al solito, non avevamo piani precisi per quei giorni, e il fatto che restassi un po’ di tempo giocava a favore della nostra tendenza all’improvvisazione. «Domani potremmo andare a Rummu e il giorno dopo incamminarci verso Riga», mi disse un pomeriggio. Così due giorni dopo, non troppo di buon’ora, provammo a partire per la Lettonia.
C’era scritto “Riga” sul pezzo di cartone che esibivamo alle macchine che ci sfrecciavano accanto. Avevamo camminato un po’ e ci eravamo fermati nella tipica posizione da autostoppisti sul ciglio di uno stradone, in mezzo al niente innevato, in attesa di un passaggio. Era strano stare lì piantati, in prossimità di quella che aveva le sembianze se non proprio di un’autostrada, almeno di una superstrada. Nessuno si fermava e questo andava rafforzando il mio scetticismo sull’autostop in epoca contemporanea. A ciò si univa la preoccupazione per il fatto che erano ormai quasi le due del pomeriggio e al problema del freddo subentrava quello del buio, che al nord inizia a calare già a quell’ora, mentre noi ci trovavamo sul margine di una strada ad alta velocità senza illuminazione. Eppure lui era convinto che in Estonia l’autostop fosse una cosa normale e che se nessuno si fermava, probabilmente era perché ci trovavamo sulla rotta sbagliata. Questa ipotesi ci fu confermata da una volante della polizia, l’unica auto che accostò. I due poliziotti a bordo ci spiegarono che per scendere verso Riga non era quella la strada giusta. Si proposero gentilmente di riaccompagnarci a Tallinn e ci consigliarono di ripartire il giorno dopo.
Alla fine aveva ragione lui: azzeccata la strada giusta, l’autostop in Estonia non era una pratica inconsueta come avevo immaginato. Il giorno seguente infatti, poco dopo aver tirato fuori di nuovo il nostro cartone, una vecchia macchina color bianco panna accostò e ci fece salire. Alla guida c’era un signore sulla cinquantina, sfoggiò un gran sorriso e ci avvertì subito che poteva portarci solo fino a Pärnu. Parlava bene l’inglese ed era a dir poco loquace. Ci raccontò delle sue origini, di sua nonna e della Crimea. Tenne banco per quasi due ore, poi a un tratto si fermò e ci diede indicazioni per continuare. Avremmo dovuto percorrere la città di Pärnu camminando sul fiume, disse che più a sud, dove la strada e il fiume si incrociano, avremmo trovato sicuramente un altro passaggio per Riga.
“Camminare sul fiume” è un’espressione che fino a due giorni prima forse non avrei compreso del tutto. Dopo l’esperienza a Rummu, però, mi era ben chiaro cosa significasse.
Rummu è il classico luogo dove le persone assennate non si recano in inverno. Non a caso eravamo le uniche due forme di vita che andavano in giro. La gente ci va in estate: c’è un lago e in mezzo, poco distante dalla riva, lo scheletro di quella che un tempo doveva essere una prigione viene utilizzato per fare i tuffi. O almeno così mi raccontarono dei locali.
Non ricordo quanto impiegammo per arrivarci dal centro di Tallinn. Eravamo a bordo di un piccolo bus e scendemmo in mezzo al niente, in un paesaggio lunare. Dalla neve sbucavano solo sporadici ciuffi di piante – evidentemente immortali per resistere a quel freddo. Si stagliavano nel suolo imbiancato resti di grandi edifici sovietici di cui non rimanevano che pilastri e qualche facciata, le finestre ormai senza vetri erano solo fessure squadrate su enormi superfici di mattoni. Il manto bianco a terra e il grigio dei palazzoni fatiscenti era interrotto solo dai graffiti variopinti sulle facciate in rovina. Tutto era immobile e la neve immacolata scricchiolava sotto i nostri piedi. Ci avvicinammo alla riva, il lago era completamente ghiacciato, la superficie opaca, intonsa salvo qualche venatura bianca. Quelle piccole crepe ci spaventavano e in quel momento mi resi chiaramente conto di quanto il ghiaccio, in quella forma e consistenza, non facesse parte della nostra cultura. Appena provammo a muovere i primi passi verso l’edificio a una ventina di metri da noi, dei sinistri scricchiolii ci diedero una sensazione di precarietà. Ci immaginammo che quelle crepe si sarebbero aperte in voragini, facendoci precipitare nell’acqua gelida. Tuttavia procedemmo per raggiungere quel relitto, sperando di arrivarci senza fare il bagno, per poi arrampicarci sui resti dell’edificio. Mentre eravamo appollaiati sul rudere in mezzo al lago, in lontananza vedemmo passare una specie di moto cingolata. Questa visione ci rassicurò moltissimo: se la gente va in moto sul ghiaccio, non c’è motivo di temere nulla. Eppure, anche tornando verso riva, i rumorini sotto di noi destavano qualche preoccupazione.
Sopravvivemmo alla traversata e compresi che in quei luoghi “camminare sul ghiaccio” non è nulla di straordinario. Da quelle parti il clima deve aver spinto le persone a sviluppare un rapporto davvero speciale con esso, un rapporto di simbiosi e complicità. Lo avevo notato appena arrivata in Estonia: fuori Tallinn c’è una specie di penisola che protende verso nord, come un vano tentativo della costa estone di raggiungere quella meridionale della Finlandia. In inverno enormi lastroni di ghiaccio si muovono lentamente sul mare, trasportati dalla corrente; in mezzo a questi blocchi quel giorno nuotava placidamente un’anziana signora. Si muoveva nell’acqua con quella quiete che riesce ad avere solo chi ha sviluppato con il ghiaccio e il freddo una totale sintonia.
Dopo averlo fatto a Rummu, pensavo che camminare sul fiume a Pärnu non avrebbe riservato troppe sorprese, invece fu una meraviglia. La superficie era bianca e brillava, tanto che il riverbero della luce faceva male agli occhi. Quel giorno il sole splendeva e scaldava in un modo inaspettato per quelle latitudini. Il fiume era largo ed era diventato una strada a tutti gli effetti, con bambini che si rincorrevano, genitori con passeggini, signori e signore a braccetto. Nel bel mezzo del corso d’acqua gelato due corpulenti pescatori sedevano su dei bauletti imbottiti a mo’ di sgabellino. Con una specie di enorme cavatappi creavano dei fori circolari nel ghiaccio dove immergevano le lenze. Di tanto in tanto tiravano su dei pesci che lasciavano a dimenarsi per terra, sotto lo sguardo affascinato dei passanti, soprattutto dei bambini che interrompevano le loro corse per assistere alla scena.
«Che fifoni l’altro giorno, ad aver paura di camminare sul ghiaccio», dissi mentre passeggiavamo ormai tranquillamente sul fiume. «Già», mi rispose lui, come sempre laconico. Il viaggio verso Riga continuò su un camion, di quelli enormi dai quali sembra di dominare la strada. Il camionista parlava solo estone, ci trattò con una gentilezza cruda ma sincera, dovuta forse all’abitudine a fare lunghi viaggi da solo. Percorremmo una lunga strada che si immergeva in quello scenario eloquente, che da Pärnu si poteva ammirare in lontananza. Dalla città, se ci si ferma un attimo sulle ampie anse del fiume e ci si guarda intorno, si può notare quanto il paesaggio estone ricalchi la bandiera del Paese, o viceversa, quanto la bandiera sia una riproduzione precisa del paesaggio. Il terreno innevato, le fitte foreste scure in lontananza e il limpido cielo azzurro richiamano alla perfezione le tre strisce orizzontali: bianco, nero e azzurro.
Ci lasciammo alle spalle l’Estonia, un paese dove l’inverno inclemente stravolge i luoghi e condiziona i modi di viverli. Per chi non ci è abituato, le superfici ghiacciate di fiumi e laghi estoni offrono una prospettiva insolita sulle città e sulla natura, quasi a ricordare l’importanza di lasciarsi incuriosire da punti di vista diversi. E ci si potrebbe anche aspettare che la rigidità delle temperature si rifletta sull’indole delle persone, che siano distaccate, indifferenti. Eppure, durante quel viaggio, ho capito che persino nella durezza di un camionista solitario può nascondersi una particolare forma di gentilezza baltica, il desiderio di capirsi malgrado non si parli alcuna lingua comune. A pensarci bene, forse il temperamento un po’ introverso e schivo delle persone del nord ha a che fare anche con il paesaggio in cui sono cresciute. Luoghi dalla bellezza mai travolgente, panorami silenziosi e disadorni, essenziali, che per farsi cogliere richiedono una certa predisposizione.